La salute non è gratis. Lo sappiamo. Quote importanti, ma mai sufficienti, del PIL vengono investite in questo settore. Ma, almeno per le cose più importanti e nella maggior parte dei casi, quando cioè si parli di vita e di morte, noi siamo stati abituati a non dovere considerare la variabile economica come qualcosa da tenere in conto. Non dobbiamo pensare se un trattamento è o meno alla nostra portata, ma ci possiamo giustamente concentrare su altre riflessioni. E così è ancora, anche se ogni giorno impercettibilmente di meno.
Quanto può arrivare a costare la salute però ti viene sgarbatamente sbattuto in faccia, quando ad avere bisogno di cure non sei tu o un tuo caro, ma un così detto “animale da affezione”.
Quando il tuo peloso inizia a mostrare i primi segni dell’età o i sintomi di una malattia, quello del veterinario è un pensiero che si fa strada.
Ed è quello che è accaduto a me giusto ieri sera.
Io e Laal, la mia micia “parlante”
Laal ha… No, Laal aveva 17 anni. È vissuta sempre con me. Scherzosamente la chiamavo il “gatto parlante”. E questo perché, essendo arrivata da cucciolosissima a casa mia,ha ben presto dovuto imparare che, se voleva comunicare con me e ottenere che i suoi bisogni venissero soddisfatti, non poteva limitarsi al linguaggio “non verbale”. Se voleva mangiare, non poteva limitarsi a guardare la ciotola e me. Doveva trovare e ha trovato altre modalità di comunicazione. Si è adattata a trovare una serie di vocalizzi differenti per ogni cosa di cui avesse bisogno.
Laal è sempre stata bene… Tranne in un’occasione di poco conto. Ma gli anni si fanno sentire per tutti e lei non ha fatto eccezione.
Così a gennaio del 2023 è stata ricoverata in clinica veterinaria, dove le hanno diagnosticato un’insufficienza renale e una possibile neoformazione intestinale, impossibile da diagnosticare completamente senza una biopsia.
È stata sottoposta ad esami del sangue, visita generale, ecografia addominale e fluidoterapia (in sostanza una parola altisonante per dire “flebo di fisiologica”). Totale di tutto il circo: €550 circa, euro più, euro meno.
L’abbiamo riportata a casa con i valori non ancora rientrati, ma, a furia di pazienza e buona volotnà, un pochino si era ripresa.
Sapevamo che non avrebbe potuto durare. E, di fatti, ha ricominciato a peggiorare.
Laal nel suo trasportino sul tavolo dell’ ambulatorio della clinica veterinaria.
A un certo momento, la veterinaria ha iniziato a sciorinare la litania delle cose che si sarebbero potute o dovute fare:
Analisi del sangue;
Analisi delle urine;
Ecografia addominale;
Fluidoterapia con ricovero per qualche giorno;
Visita neurologica;
Ecocardiografia;
Magari una risonanza magnetica con mezzo di contrasto…
Totale prudenziale di questa seconda versione del circo: non meno di €1000, a voler fare tutto per bene. E, lo ripeto, si tratta di un totale prudenziale, ché solo la risonanza con mezzo di contrasto da sola potrebbe tranquillamente sforare il budget, visto che, oltre ll’esame in sé, bisogna fare l’anestesia e tutta la valutazione anestesiologica.
Mentre una parte di me avrebbe semplicemente tirato fuori la carta di credito e spremuto ogni euro possibile per fare quanto era necessario, la mia parte più fredda, anzi, forse gelida e razionale s’è messa a fare di conto. Si è messa a ragionare sull’età del gatto, sul carattere inevitabilmente degenerativo del quadro renale, sul fatto che, voglia o non voglia, anche risolvendo questa particolare crisi, la prossima non era tanto prevedibile, quanto inevitabile. Si è messa a ragionare sulle settimane di vita in più che i trattamenti e gli esami avrebbero potuto dare a Laal, sulla qualità di queste settimane o mesi. E, dopo avere ragionato, inserendo nel computo anche il fattore economico, quella che mia madre chiama la mia “parte robot” ha deciso.
E ha deciso per l’eutanasia.
Ho firmato le carte.
Il medico ha portato il terminale POS per pagare la fattura: €180, di cui 100 per la visita e 80 per l’eutanasia. La cremazione è a parte e costa 40 per quella a perdere, mentre non sappiamo ancora quanto per quella che restituisce le ceneri… Sperabilmente quelle del tuo animale.
Pagata la parcella, il medico ha portato Laal a inserire un ago in vena e, assieme a lei, ci ha riportato la fattura e… Il certificato di morte. Il certificato di morte di un animale ancora vivo… Ma avevamo pagato e del pacchetto faceva parte anche l’emissione del certificato.
Il veterinario è ritornato con le sue siringhe. Io ho tenuto Laal mentre si accasciava dopo l’anestesia. Le ho tenuto le dita sul piccolo torace e ho fisicamente sentito il suo minuscolo cuore fare gli ultimi battiti, prima di cedere le armi al silenzio.
Ed è tutto.
Mentre accarezzavo quel corpo disanimato, e piangevo pensando a Laal e a tutti gli altri “animali da affezione” che ho avuto la fortuna di avere con me e per la cui perdita ho sofferto, mi si è introdotto, indesiderato, nella mente un pensiero.
E se…
E se il privilegio che noi oggi diamo per scontato e che ci consente di entrare in un pronto soccorso con la ragionevole aspettativa che quanto si sarà rivelato necessario sarà fatto non in virtù del pagamento di una parcella o dipendentemente dalla nostra solvibilità, ma semplicemente perché è necessario, ci venisse semplicemente strappato via?
No, certo, non oggi e nemmeno domani. E nemmeno dalla sera alla mattina, ma con piccole stilettate, scalfitture continue, che, giorno dopo giorno, come la roccia scava la pietra più dura a darle tempo sufficiente, così eroderanno, atomo dopo atomo, il nostro diritto alla salute e, in ultima istanza, alla vita.
In altri Paesi del mondo è già così. E nella compagnia, oltre a luoghi che siamo tradizionalmente abituati ad associare al terzo mondo o alla povertà, ce ne sono anche di così detti civili: uno su tutti, gli Stati Uniti d’America.
Quanto è davvero lontano il giorno in cui uno di noi, seduto davanti a un medico, si sentirà sciorinare un rosario astruso fatto di analisi, accertamenti, visite e… Prezzi? Quanto è lontano il giorno in cui noi, tramortiti dalla sciagura della malattia nostra o di un nostro caro, brancoleremo cercando ddi capire quello che ci viene detto, di darci un qualche senso e di impostare una riflessione razionale, quale che sia. E quanto è lontano il tempo in cui di questa “riflessione razionale” farà parte anche l’aspetto economico?
E dovremo magari decidere se spendere o no quella somma, distogliendola magari da altro: il cibo, il pagamento dell’affitto o del mutuo, o addirittura indebitarci fino a perdere ogni cosa.
O, peggio ancora, quanto è lontano l’orrore del momento in cui giungeremo alla consapevolezza che, pur profondendo ogni sforzo possibile, semplicemente quei soldi non possiamo spenderli perché non c’è nessun modo per noi di averli?
E magari supplicheremo il medico che ci dica per favore, per pietà, che sì, la decisione della “dolce morte” è davvero quella giusta o, almeno, quella meno sbagliata.
E ci consegneranno un POS e poi una fattura e poi…
Il mio è un incubo banale. Il terrore che ciò accada è onnipresente: serpeggia sotto traccia nei social, sui giornali, ogni volta che ci si lamenta di quanto sia difficile ottenere una visita non in regime privato, o che ci si scandalizza per le interminabili liste d’attesa. Ma sembra che non si riesca a fare il passo successivo. Sembra che non riusciamo, collettivamente, ad arrivare alla conclusione che sì, questa distopia, è non soltanto possibile, ma addirittura probabile. E pare che non riusciamo a metterci nell’ordine delle idee che è necessario opporsi, con ogni e qualsiasi mezzo, lecito o no che sia, anche alla sola idea che una simile rapina di civiltà sia perpetrata.
Da ieri sera non riesco a trarmi fuori dalla mente l’incubo che, in un futuro magari non troppo lontano, seduto davanti al medico comprensivo che mi dice che, insomma, anche il criterio economico è un criterio degnissimo, potrei stare valutando la fattibilità delle cure per me o per un mio caro. E quest’incubo mi atterrisce, perché ne temo la realizzazione.
Non è da tutti essere pugnalati a tempo di musica, non trovate? Cioè, di solito, anche nei film, il massimo in cui un accoltellato decente possa sperare, è una colonna sonora che telegrafi la coltellata con almeno quei 30 secondi di anticipo. Il morituro se ne sta facendosi i casi suoi, sbucciando mele, pelando patate o facendo la doccia e, nel mentre che l’azione si dipana, in sottofondo sempre meno sott, s’alza la musica che annuncia tregende.
Ma, seppure la musica annuncia quel che sta per avvenire al punto che uno si chiede che diamine continui a badare il nostro agli affari suoi, essendo portati alla necessaria conclusione che o è sordo o è scemo o s’è rotta la filodiffusione, quando arriva la coltellata è un fendente secco, al massimo due o tre. Ma l’assassino mica li vibra a tempo di musica. Zac! È fine della faccenda.
Io ho saputo far di meglio nel mio film notturno che sempre è un film dell’orrore, anche se cambia sceneggiatura.
Stanotte son morto a temo di musica. È non una, ma almeno due.
Ecco la colonna sonora iniziale del mio sogno di stanotte
Beh, se non altro non si può dire che non abbia stile, non trovate, miei cari 4 lettori?
Mi trovavo su un palco con delle luci fortissime puntate in faccia. C’era un pubblico. Un pianoforte suonava. Io non mi potevo muovere: non ero legato, ma per qualche ignota ragione i miei piedi sembravano tutt’uno con il palco. Non potevo fare un passo. Attorno a me, ballavano in circo tante persone. Ognuna aveva una coltello. Qualcuno cantava. Erano donne. Non so come faccio a saperlo, ma erano tutte donne. E mi danzavano attorno. Di tanto in tanto, a tempo con la musica, arrivava una coltellata.
Sotto il chiar di Luna va a cantar la serenata… Zac! dove fa la nanna la pinguina innamorata… Zac! Oh bella figlia dell’amor, schiavo son dei vezzi tuoi… Zac!!! Sono tutto tuo se tu mi vuoi. Zac!
A ogni coltellata, io cadevo e immediatamente venivo rimesso in piedi.
Tutti questi sogni sono dannatamente vividi, sensorialmente vividi, intendo dire. Ricchi di dettagli, anche di quelli che uno farebbe volentieri a meno di sentire. Non sono mai stato accoltellato e quindi non ho idea di come sia la sensazione di un coltello che ti entra nella carne. Ma, in qualche modo, lo sento farsi strada oltre la pelle, oltre i muscoli. Sento il sangue che cola fuori: subito caldo, un po’ com’è l’urina quando ce la si fa addosso, per intenderci, poi, mentre cola sulla pelle, freddo e sempre più denso. Ne sento l’odore metallico. Lo sento colare lungo le gambe e dentro i sandali. Lo sento diventare sempre più denso, più viscoso tra le dita dei piedi, sotto le piante dei piedi, a mano a mano che si coagula.
Non sono come quei sogni in cui sai che sta succedendo qualcosa, ma non lo “senti” per davvero. In questi sogni, quel che succede lo senti, lo provi.
Naturalmente mi sono svegliato. Anche voi vi svegliereste se un branco di pazze si insinuasse nei vostri sogni e si mettesse a girarvi attorno tirandovi una stilettata alla fine di ogni verso di una canzone surreale che parla di un pinguino che se ne va in frac sul pac per andare a cantare la serenata a una pinguina addormentata, non credete?
Ma, come spesso accade, riaddormentarmi ha semplicemente fatto ripartire il sogno. Solo che è cambiata la colonna sonora.
La seconda colonna sonora
Il resto è rimasto sostanzialmente uguale.
Caro inconscio del cazzo, l’ho capita. Ho trovato gli elementi del sogno. Le due colonne sonore per esempio: una viene da una puntata di “”Techetechete’” dell’altro giorno. Quella del pinguino l’ho ascoltata ieri pomeriggio. I piedi incatenati al palco sono espressione di una sensazione di imprigionamento. Mi stai dicendo che senti di non poter fuggire, che non ci sono alternative, che non c’è una via di fuga, che c’è un’angoscia inestinguibile. Coltelli e fendenti sono il tuo modo di dirmi che mi sento in pericolo, che percepisci minacce gravi. L’ambientazione, simile al teatro, dipende dal fatto che giusto ieri sera è uscito l’ultimo lavoro di DramaBooks: l’audiodramma “La parola ai giurati” in cui ho violentato pure io il copione; e quindi, in base al famoso principio della “drammatizzazione” che il buon Sigmund ha già spiegato, minaccia, angoscia e tutto il resto si sono inseriti in una cornice coerente coi miei ricordi. Ah, a proposito, miei cari lettori, se vi va, visto che siete arrivati fin qui, “La parola ai giurati” andatevela a sentire.
Quindi, sì, ho capito. Del resto, tra calabroni e scorpioni che mi inseguono, interventi chirurgici fatti senz’anestesia o perché è finita o perché l’anestesista è in ritardo e si deve pure andare avanti con l’agenda, asportazioni dell’occhio fatte con un cucchiaio arrugginito, classi di liceo che si trasformano in un aereo che precipita dal quale io mi lancio con un paracadute che si rivela essere uno zaino pieno di libri, è difficile non capire. Allora, visto che è chiaro che ho capito e che non avrei mai potuto non capire, che ne diresti di piantarla? No, perché, se vai avanti così, semplicemente impazzirò. Ecco tutto. È quando sarò del tutto impazzito, finirò di capire del tutto qualsiasi cosa..
E li odio perché ho sempre e da sempre nutrito verso di loro una paura viscerale, più simile al terrore, alla fobia del tutto incontrollabile..In Germania, è illegale dare fuoco ai loro maledetti nidi: ulteriore elemento che mi spinge a guardare con sospetto quella parte di mondo.
Mi basta sentire il loro ronzio che è diverso da quello di una qualsiasi altra cosa volante. Un’ape la puoi confondere con una vespa o, talvolta, anche con una mosca. Ma il ronzio del calabrone no, non lo puoi confondere con nient’altro.
Immaginarlo basta a farmi serrare le mascelle, farmi venire i brividi. Sentirlo sostanzialmente mi paralizza.
Non li avevo mai sognati i calabroni. Mai in tutta la mia vita.
Stanotte sono venuti a farmi visita: ultimo orrore notturno tra quelli che mi funestano il sonno, ogni maledetta notte o quasi, da febbraio in qua.
Nel mio sogno, ero in studio. La finestra era chiusa e io ero certo lo fosse. Ma, incredibilmente, ho iniziato a sentire il ronzio di quella bestia maledetta. Prima una soltanto. Mi girava attorno come fanno loro. Perché le api,!ad esempio, non hanno particolare interesse a molestarti. Il calabrone, invece, pare quasi che ti studi, che ti giri attorno in cerchi concentrici, con il preciso scopo di attaccarti; né teme di pungerti, perché il maledetto bastardo: il suo pungiglione, a differenza di quello delle povere api, non è monouso. Se poi ti punge vicino al nido, molto probabilmente ne arriveranno anche altri a pungerti. Sì, io li odio i calabroni.
Poi non ce n’è più stato uno soltanto. Due, poi tre… Poi semplicemente tanti, molti, troppi; una coorte ronzante quel loro ronzio grave, vibrante minaccia, che mi gela il sangue dentro le vene. E filtravano come fossero liquidi, dalla finestra chiusa… Come se questa nemmeno ci fosse. Ed erano così tanti che il loro volo assordava, spingendomi in un angolo, rannicchiato e tremante.
E urlavo, urlavo, urlavo un urlo di inarticolato terrore, basilare implorazione d’aiuto. E mi sono svegliato con un gemito che si faceva a fatica strada fuori della gola serrata, tra i denti digrignati, rannicchiato in posizione fetale, le mani a coprire il viso..
Sono rimasto così, bloccato sul divano, con il cuore che tambureggiava in petto e nelle orecchie: 130 battiti al minuto, se bisogna dar credito al mio Apple Watch. Sì, la mia passione per dati, misure e informazioni non mi abbandona mai del tutto e, anzi, quando sono assalito dalla marea dei miei mostri interiori, focalizzarmi su qualcosa di misurabile, quantificabile, mi permette di conservare la capacità di discernere tra ciò che è Reale e ciò che, per quanto possa terrorizzare, non lo è. In quei momenti, io conto, conto qualsiasi cosa: i battiti del cuore, il ticchettio ritmico della goccia d’acqua che sfugge da un rubinetto mal chiuso, i passi di qualcuno che cammina nel portico sotto casa, le automobili. Io, semplicemente, conto e, contando, sposto il focus della mia mente su altro da me stesso, sul “fuori”.
Dopo qualche minuto sono scivolato nuovamente nel sonno. Ma la transizione non è stata netta. Ero ancora sul divano e, in sottofondo, la voce dell’audiolibro dipanava la sua storia: “L’uomo di Pietroburgo” di Follet, se interessa a qualcuno. Tutto era perfettamente reale, verosimile. La realtà della stanza si era intessuta nel sogno così da non farmi avvertire lo stacco tra la veglia e il sonno.
E sono tornati.
I calabroni. Sentivo il loro ronzio rabbioso farsi di istante istante più intenso.
Continuavo a dirmi: “Non possono essere qui! Qui non ci sono calabroni!” Ma, allo stesso tempo, la loro presenza era così reale, così indiscutibilmente reale, che la semplice considerazione razionale dell’impossibilità della loro presenza nel “qui ed ora” sembrava un ben misero scudo contro il dato che mi restituivano le mie orecchie.
Sapevo soltanto che dovevo fuggire il più veloce e lontano possibile e che, se mi avessero preso, sarebbe stata la fine.
Così ho cominciato a correre a piedi nudi lungo il corridoio verso la porta d’uscita. Ma sul pavimento c’erano… Scorpioni. Un maledetto, fottuto, schifoso tappeto di odiosi scorpioni. Sì, odio anche gli scorpioni, oltre ai calabroni. Sì, ho paura anche degli scorpioni, oltre che dei calabroni.
Continuavo a correre. Ma, come sempre accade nei sogni, più mi sforzavo di correre, più lento mi pareva d’andare e la porta sembrava allontanarsi sempre di più. Sotto i piedi gli scorpioni. Mi pareva di sentirli esplodere sotto le piante dei piedi, mentre altri forse mi pungevano o forse no… Non lo ricordo. Ma ricordo che altri mi si arrampicavano lungo le gambe. Dietro di me la nuvola di calabroni. Davanti a me la porta infinitamente lontana, oltre un corridoio impossibilmente lungo.
E poi, finalmente, ho avuto la grazia del risveglio.
E adesso sono qui… Sveglio dalle 02:54, per essere esatti. E non credo di avere il coraggio di riaddormentarmi. I calabroni e gli scorpioni potrebbero aspettarmi appena sotto la superficie del sonno e, magari, stavolta, potrebbero prendermi.
Sì, lo so che nulla di tutto questo è davvero reale. Non sto perdendo il contatto con la realtà, né sto delirando o avendo allucinazioni. So che è “soltanto” un sogno. Ma quando da mesi i tuoi sogni sono popolati quasi esclusivamente da orrori e terrori, il sogno finisce con l’acquistare una sua propria realtà. Tu sai che, molto probabilmente, appena ti addormenterai, qualcosa sorgerà dalle profondità del tuo inconscio a terrorizzarti. Non sai cosa sarà, ma sai che sarà. Notte, dopo notte, dopo notte, al punto che l’addormentarsi in sé diventa un incubo che non puoi evitare.
E io sono tanto stanco, così profondamente, essenzialmente stanco. E ho paura.
E alla fine, eccola qua. Prevedibile e prevista così come si prevede che al lampo seguirà il tuono, è arrivata ed è tra noi la retorica di guerra: il leitmotiv del sacrificio per un fine superiore, più nobile, necessario.
“La lotta che appoggiamo oggi, i sacrifici che compiremo domani sono una difesa dei nostri principi e del nostro futuro”.
Questo un frammento delle ultime dichiarazioni di oggi del buon “nonno delle istituzioni” al Parlamento. Nient’altro che una variazione sul tema dell’antico “Dulce et decorum est pro patria mori”: “è dolce e decoroso morire per la patria”, solo che senza il “mori”, che oggi sfigurerebbe un po’. Certe cose oggi non è bene dirle. Meglio lasciarle intuire: che ognuno poi si figuri la cosa come meglio crede.
Discorsi triti e Ritriti, sentiti 1000 volte in 1000 epoche a partire dalle demegorie di Alcibiade alla truppa, passando per il De Bello Gallico, avanti fino all’annuncio della prima Crociata da Urbano II nel 1088, a continuare con la strage degli Ugonotti, proseguendo con i discorsi che diedero fuoco alle polveri della Grande Guerra che condusse poi alla seconda. E poi, ancora, per la Corea, il Vietnam. E ancora per la Prima e la seconda guerra del Golfo persico, per l’Afghanistan, per i bombardamenti di Belgrado, per quelli in Libia. Sempre uguali. Appello a valori ritenuti fondanti e fondamentali della “nostra” civiltà, messi acrobaticamente in relazione con l’attuale cimento in cui è necessario profondere ogni stilla d’energia. E poi, prima di tutto, sopra a tutto, quella maledetta prima persona plurale: la lotta che combatteremo, i sacrifici che faremo… Semplicemente rivoltante.
Ogni dannata volta, ogni dannata guerra, è sempre, sempre stata puntellata con la giustificazione morale, la polarizzazione del pensiero, la mostrificazione del nemico,. Noi, che siamo per definizione i buoni e, va da sé, gli unici buoni, combattiamo per il bene, la democrazia e la libertà. Gli altri, che loro sono gioco forza i cattivi, combattono per toglierci tutto questo. E se non combatteremo, se non ci sacrificheremo, tutto ci verrà tolto. Naturalmente i cattivi sono assolutamente intercambiabili. Possono essere i persiani per i greci. Oppure i cartaginesi per i romani. O ancora i musulmani per i crociati, i protestanti per i papisti. Non cambia molto.
Che questa retorica brutale e che si è dimostrata fattualmente e storicamente quasi sempre più falsa di una moneta da €3 venga ancora creduta e che, ancora oggi, nel 2022, non si sia interiorizzato il semplice fatto che le guerre, chiunque le dichiari, quali che siano, uale che sia il paludamento moraleggiante con cui le si mistificano, si combattono per interessi e che questi interessi ben di rado coincidono con quelli di chi in queste guerre è manovalanza di sangue, sudore e merda, e che i sacrifici cui invariabilmente ogni volta ci si chiama sono infallibilmente e per la più parte a carico di chi già porta il basto di una condizione di vita complessa e impoverita, testimonia il fatto che questi appelli devono fare in qualche modo leva su un qualche meccanismo non sociale, non psicologico, nemmeno antropologico, ma addirittura etologico. Se uno ci si ferma un attimo a ragionare con un po’ di razionalità, non può non annusare il prepotente aroma dell’aria fritta. E non ci vuole chissà quale fine intelletto per decostruire questa sordida, sanguinosa retorica per quel che è. Prova ne è il fatto che quando sono gli “altri” a servirsene, smascherarla, per “noi”, è semplice. E ci prendiamo anche gioco di quei sempliciotti che ci cascano con tutte le scarpe. Quando però sono i “nostri” a tirar fuori dal vecchio cilindro dei loro sporchi trucchi troppo abusati questo frusto arnese, d’improvviso la ragione ci si obnubila e ci crediamo, ci crediamo veramente e con tutto il cuore. E siamo pronti a lanciare il cuore oltre l’ostacolo, aggiungendoci, per buona misura, anche il cervello.
Io non credo a una singola sillaba di queste dichiarazioni. Non ci credo perché le ho lette in mille versioni a partire da Erodoto fino ai giornali di ieri. E non sono praticamente mai state vere. E non lo sono nemmeno queste, se non nella parte in cui preconizzano sacrifici durissimi che, però, saranno ancor più duri e acerrimi proprio per chi meno se li potrebbe permettere.
Questa è niente di meglio e niente di più che propaganda, un’indecente manipolazione che pretende di far credere ai più disperati che inevitabilmente sosterranno la maggior parte dell’urto di questa follia collettiva così come dalla notte dei tempi hanno sostenuto l’urto di altre simili pazzie, che è per un bene maggiore. E, in un certo senso, è vero, soltanto che il bene di cui si tratta quasi mai è il loro.
E c’è soltanto da supplicare qualsiasi deità si periti di sprecare per noi uno sguardo misericordioso, ammesso ce ne sia qualcuna, pregarla che questo appello mistificante con il suo “whatever it takes” si limiti alla pura parte economica e che non chieda anche un contributo di sangue che, se sarà versato, come sempre e ancora una volta, non sarà quello di chi ci avrà gettato nella mischia.
A chi, nonostante tutto ancora riesce a credere a quella che, lo ripeto, altro non è che propaganda e nemmeno della più rifinita, raffinata o innovativa, che posso dire? Nulla. E semplicemente perché chi la pensa così, a leggere fino a qui non c’è nemmeno arrivato. Mi permetto, questo sì, di proporre la lettura di un tizio che quant’è dolce morire per la patria l’ha sperimentato, poco dopo avere scritto questi versi: il buon Wilfred Owen.
Piegati in due, come vecchi straccioni, sacco in spalla,
le ginocchia ricurve, tossendo come megere, imprecavamo nel fango,
finché volgemmo le spalle all’ossessivo bagliore delle esplosioni
e verso il nostro lontano riposo cominciammo ad arrancare.
Gli uomini marciavano addormentati. Molti, persi gli stivali,
procedevano claudicanti, calzati di sangue. Tutti finirono azzoppati; tutti ciechi;
ubriachi di stanchezza; sordi persino al sibilo
di stanche granate che cadevano lontane indietro.
Il gas! Il gas! Svelti ragazzi! – Come in estasi annasparono,
infilandosi appena in tempo le goffe maschere antigas;
ma ci fu uno che continuava a gridare e a inciampare
dimenandosi come in mezzo alle fiamme o alla calce…
Confusamente, attraverso l’oblò di vetro appannato e la densa luce verdastra,
come in un mare verde, lo vidi annegare.
In tutti i miei sogni, davanti ai miei occhi smarriti,
si tuffa verso di me, cola giù, soffoca, annega.
Se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo
dietro il furgone in cui lo scaraventammo,
e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto,
il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato;
se solo potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceni come il cancro, amari come il rigurgito
di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,
la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est
Pro patria mori.
Bent double, like old beggars under sacks, Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge, Till on the haunting flares we turned our backs And towards our distant rest began to trudge. Men marched asleep. Many had lost their boots But limped on, blood-shod. All went lame; all blind; Drunk with fatigue; deaf even to the hoots Of tired, outstripped Five-Nines that dropped behind.
Gas! GAS! Quick, boys!—An ecstasy of fumbling, Fitting the clumsy helmets just in time; But someone still was yelling out and stumbling, And flound’ring like a man in fire or lime… Dim, through the misty panes and thick green light, As under a green sea, I saw him drowning. In all my dreams before my helpless sight, He plunges at me, guttering, choking, drowning.
If in some smothering dreams you too could pace Behind the wagon that we flung him in, And watch the white eyes writhing in his face, His hanging face, like a devil’s sick of sin; If you could hear, at every jolt, the blood Come gargling from the froth-corrupted lungs, Obscene as cancer, bitter as the cud Of vile, incurable sores on innocent tongues,— My friend, you would not tell with such high zest To children ardent for some desperate glory, The old Lie: Dulce et decorum est Pro patria mori.
Che dire, quindi? Buona fortuna a tutti e che Dio, se c’è e può, ce la mandi buona… A tutti, ma un po’ meno a chi questa follia l’ha voluta, progettata, messa in atto e la sta propagandando.
Le persone con disabilità sono vittima di violazione dei loro diritti umani fondamentali tutti i giorni, spesso più volte al giorno. Ne siamo a tal punto vittima e tanto ne è permeata la realtà che viviamo da renderci spesso difficile maturarne una reale consapevolezza. Sono così frequenti, così diffuse, così ubique che finiamo quasi con il ritenerle fatti di natura: “È così, perché è così”, in virtù di una sorta di lex naturalis.
Perché devi prenotare l’assistenza ferroviaria 24 ore prima del tuo viaggio? Ma, boh, perché è così!
Perché non puoi scegliere liberamente in che stazione ferroviaria finire il tuo viaggio o da quale iniziarlo? Perché non puoi scegliere liberamente dove vivere? Perché non puoi scegliere dove andare a mangiare una pizza? Perché? Perché? Perché?
Perché è così.
A noi persone con disabilità sono negati così tanti diritti costituzionalmente garantiti che, probabilmente, se ci fermassimo davvero a riflettere seriamente su ciascuna delle violazioni di cui siamo fatti oggetto, probabilmente impazziremmo. Alla fine, per non andare in mille pezzi, abbiamo in qualche misura dovuto imparare a fletterci. Noi siamo il prototipo dell’Homo resiliens: noi la “resilienza” l’abbiamo elevata a forma d’arte ben prima che s’iniziasse anche soltanto a patirla questa parola. Ah, e qui, visto che ci sono, un piccolo consiglio ai lettori non (ancora) disabili. Figli miei, ve la posso dire una cosa? Quando v’invitano alla resilienza, alzate le antenne e preparatevi alla fregatura. Sta per arrivare una bastonata. E poco importi che la cresima sia divisa in scomode rate: si stanno semplicemente preparando a estorcervi qualcosa di prezioso e ve lo vogliono pure far passare per un meraviglioso miglioramento! Guardate noi!!! C’abbiamo leggi a tutela ovunque, eppure siamo ancora qui a scegliere le pizzerie non in base a quant’è buona la Margherita, ma tenendo conto di cose tipo la presenza di uno scalino all’entrata o di un cesso accessibile, nel caso in cui la birra scendesse troppo velocemente in zona escretiva.
Eppure, nonostante tutto, il 99% delle violazioni sono per omissione. Intendo dire che non c’è una sorta d’eminenza grigia che vessa, tormenta, travaglia e infligge angherie ai poveri handicappati. Cioè, qualche (rara) volta c’è, ma è appunto raro. Nel 99% dei casi, il tutto si riconduce all’omissione, alla trascuratezza, alla disattenzione, all’inconsapevolezza (spontanea o accuratamente coltivata), all’inadempienza.
Già. L’inadempienza. Perché le leggi ci sarebbero. Ne abbiamo tante che, potendo ritrasformare in alberi la carta su cui sono state scritte, la foresta amazzonica ci regalerebbe una bell’anaconda per commossa gratitudine.
E il maggiore inadempiente è… Lo Stato. Lo stesso Stato che promulga le Leggi che ci liberano, è poi lo stesso che si “sente” liberissimo di non adempiere gli obblighi che ha stabilito. E, in fin dei conti, sono queste le inadempienze che contano.
Se io non posso votare in modo libero, segreto e autonomo, è perché lo Stato, violando una stessa sua norma, ha deciso di applicare la Carta Costituzionale in modo diseguale tra persone con disabilità e persone senza disabilità.
Se io, oggi, a Treviso o in molte città, sono costretto a notare che la quasi totalità delle fermate del Pubblico Trasporto sono inaccessibili, è perché lo Stato, nelle sue varie articolazioni, ha omesso di renderle accessibili. E, in tutto questo, gli amministratori più illuminati, quando si confrontano con noi, ancora ci chiedono di individuare delle fermate di maggiore interesse… A decenni dall’entrata in vigore delle Leggi che ne prevedono l’accessibilità. Se avessimo il coraggio di essere all’altezza dei diritti che rivendichiamo, dovremmo rispondere semplicemente: “Tutte, sono tutte fermate d’interesse, perché a noi INTERESSA andare e potere andare ovunque possa avere legittimo interesse andare qualsiasi altro cittadino non disabile.
Con tutto questo, pare che ora uno dei temi fondamentali continui ad essere l’appropriatezza del lessico, la corretta rappresentazione. Intendiamoci, sono tutte tematiche importanti che non sottovaluto, ma che ho l’impressione abbiano assunto un’eccessiva preminenza nel discorso pubblico delle Persone con Disabilità maggiormente attive e impegnate.
Ora, io lo capisco bene che, nel dire quel che sto per dire, probabilmente non sono in maggioranza. Ma tutta ‘sta ossessione per le parole e per il loro uso della cui correttezza si fanno carico così tanti Catoni più inflessibili che i cerimonieri della Regina d’Inghilterra, io non lo riesco a capire. E, se posso dirla schietta, ho la marcatissima sensazione che una cosìpervasiva attenzione, che talvolta a me sembra sconfinare nella franca ossessione, sia la spia del terrore non troppo sotterraneo di non aver più presa sulla matericità del mondo: temendo di non poterci impattare abbastanza su questo mondo per renderlo un posto un pochino meno peggiore, ci s’aggrappa ai simboli che questa realtà la descrivono, coltivando la convinzione che modificare questi significhi cambiare quella. Io non credo che le cose funzionino così e, anzi, in me cresce sempre di più la paura che insistere tanto su quest’aspetto possa essere, alla lunga pericoloso. Da un lato, ostinarsi a fare i “maestrini con la penna rossa” non contribuisce certo a creare simpatia né per noi, né per la nostra causa; dall’altro, il lupo è più difficile da riconoscere quando veste pelle d’agnello. Fuor di metafora, se uno dice “È ora di smetterla di spendere tutti ‘sti soldi per gli handicappati” è chiaro che cosa vuol dire e a che insieme di idee fa riferimento. Non serve nessuna decodifica, non serve nessuna disambiguazione, non servono interpretazioni sofisticate. Ma se uno dice “L’indiscutibile esigibilità dei diritti delle persone con disabilità, la cui via così magistralmente è stata inaugurata con provvedimenti legislativi pionieristici, nella temperie socioeconomica odierna incontra formidabili sfide che tuttavia non possono farci desistere dal proseguire la nostra riflessione. Al fine di assicurare la sostenibilità di tali diritti, occorrerà ben modulare gli interventi, tenendo conto, con razionalità, dei reali bisogni, del contesto in cui la persona con disabilità vive e di tutte le variabili sociali, economiche e ambientali, personali e famigliari, al fine di costruire un modello d’intervento equilibrato e multidimensionale”. Ho detto più o meno la stessa cosa, solo che l’ho resa un po’ meno riconoscibile. Ma sotto quintali di belletto lessicale, il mostro è sempre lo stesso.
Sarebbe forse il caso di ricominciare a sporcarci un po’ di più le mani e a rivendicare un’agibilità sociale e ambientale. Una volta che potremo davvero andare, fare, esserci, allora avremo anche la possibilità di portare con noi il discorso sulla disabilità, nei termini in cui ci paiono più adeguati… Di portarlo là fuori, in mezzo alle persone che vivono quel mondo che, oggi, per noi, rappresenta ancora e per troppa parte un percorso a ostacoli.
Qualcuno scrisse che bisogna essere cauti con ciò che si chiedi agli Dei, perché potrebbero esaudirti. Le preghiere vanno confezionate con cura, con la stessa che si metterebbe nello stendere un contratto. Altrimenti poi si finisce come il vecchio Titone, che ottenne l’immortalità, ma senza l’eterna giovinezza.
Qualcuno tra noi persone con disabilità deve avere mandato in summo caelorum una prece in cui si supplicava chi di potere che di disabilità sui media si parlasse un po’ di più. Solo che dev’essersi dimenticato di chiedere, oltre alla quantità, la qualità.
E così, da qualche anno a questa parte, effettivamente di disabili e disabilità si parla un po’ di più. Solo che se ne parla fin troppo spesso alla cazzo di cane… E scusate il francese, se potete.
Il Festival “venti ventidue” della canzone italiana poteva esimersi dal dedicare il suo angolino alla disabilità? In tutta onestà, io me l’auguravo. Disperando nella qualità del messaggio, speravo nella scarsità. Ci speravo sì, ma non tanto. Da un cinque anni a questa parte, forse anche da un po’ prima, ogni spettacolo d’un certo livello deve, non può, ma deve, a pena d’essere fatto letteralmente a pezzi, occuparsi di tre temi che, in ordine di ineluttabile imprescindibilità sono: omotransfobia, razzismo e, buona ultima, la disabilità. È la sacra “tremorti” del politicamente corretto a tutti i costi, anche a quello del sacrificio del buon gusto.
Così standardizzati, addomesticati, questi temi, di per sé potenzialmente in grado di essere destabilizzanti, dirompenti, s’annacquano.
E così, ci ritroviamo un Achille Lauro di cui altro non si può celebrare che la noiosa banalità di un anticonformismo reso con deliberata, consapevole premeditazione, strumento di marketing. Ma, porello, lo capisco: non avendo voce bastevole per potenza e qualità nemmeno per cantare con dignità sotto la doccia in splendida solitudine, per poter calpestare, oltre alla dignità della canzone, anche il palco di quello che dovrebbe esserne il festival, non potendo per i summenzionati invalicabili limiti, definirsi “cantante”, può soltanto puntare alla generica qualifica di “performer”: denominazione buona un po’ per tutto, in fin dei conti.
Ci ritroviamo, in una specie di strana parità d’opportunità, un uomo che, travestito da donna, inscena, con innegabile maestria e raffinatezza, le migliori qualità femminili.
E, immancabile, abbiamo anche il monologo dell’antirazzismo di regime, che suona, consentitemelo, noioso, posticcio, forzato. Ma tant’è: li capisco quelli di Sanremo, se non l’avessero messo in scaletta, sicuramente, la domenica dopo la finale, in qualche salotto qualche opinionista presenzialista che oggi passa per intellettuale, avrebbe con sussiegosa disapprovazione stigmatizzato come, proprio in questo momento, il Festival della canzone italiana abbia fallito nella sua missione di diffondere il verbo dell’antirazzismo.
Però che per una volta, almeno la disabilità riuscisse a sfuggire, beh, sì, lo avevo sperato. Ma, nel momento in cui su quel palco è salita la Giannetta ho capito che nemmeno quest’anno ce l’avremmo fatta.
Su Blanca, la serie di cui la Giannetta è stata protagonista, volutamente non ho scritto né detto molto. È una serie godibilissima… Purché si tenga bene a mente che è, per l’appunto, un’opera di fantasia. E, come tutte le opere di fantasia, richiede una notevole sospensione dell’incredulità. Se invece si decide che “Blanca” non è più soltanto un’opera di fantasia con cui passare del tempo divertente ma la si eleva a strumento per fare cultura sulla disabilità in generale e informazione su quella visiva in particolare, allora di cose da dire ce ne sarebbero e anche molte. Chi di noi diversamente vedenti non ha sussultato di genuina invidia vedendo il navigatore GPS magico di Blanca che riesce a condurla, senza errore, incertezza o imprecisione, non soltanto davanti al civico corretto, ma addirittura in corrispondenza del pannello del citofono? Cioè, i nostri miseri Google Maps talvolta ci fanno proprio sbagliare via! Blanca, invece, non sbaglia mai. Forse qualcuno di noi qualche piccolo moto di contrarietà ce l’ha avuto pure quando la nostra eroina, ascoltando i rumori delle gocce di un acquazzone, ci ha dipinto il mondo. Per molti di noi che non vediamo, la pioggia è nemica di ogni orientamento, con il suo rumore che annega tutti gli altri.
Poco male, in realtà. Da una serie TV non ci si aspetta che racconti la verità, che dipinga la realtà. Tutti i lettori sono avvezzi al concetto di “sospensione dell’incredulità”. Chi, come me, quando non legge saggistica, divora fantascienza, poi, della sospensione dell’incredulità ha fatto una sorta di credo laico. Quando ci si siede davanti alla TV e si osserva Jean-Luc Picard sulla plancia dell’Enterprise mentre pronuncia il suo iconico “Attivare” non potrebbe farlo senza sospendere l’incredulità.
Ma evidentemente una storia, quando parla di disabilità, non può essere soltanto una storia, una serie da guardare per svago. Deve necessariamente avere un contenuto edificante. E Blanca non è sfuggita a questa triste regola.
E così, ieri sera, è andato in scena l’ennesimo episodio di “Inspiration porn”.
Chi mi conosce sa che io tendo ad essere allergico agli “-ismi”: maschilismo, femminismo, ageismo, abilismo… Sono etichette che si fa presto ad appiccicare su qualsiasi cosa e che rendono fin troppo facile denigrare un pensiero, un atteggiamento, un comportamento, senza preoccuparsi di entrare nel merito di ciò che si critica. Un comportamento non ci piace, ci infastidisce, ci pare inappropriato? Basta usare una delle “parole magiche” del politicamente corretto e la questione si può considerare sepolcralmente conclusa. Spesso non è necessario dimostrare il come o il perché a qualcosa vada affibbiato un “-ismo”, quale che sia; l’enunciazione fa anche da dimostrazione e tanto basta.
Ma quel che è andato in scena ieri sera, per quanto mi riguarda, più che rientrare nella definizione di “abilismo”, ne costituisce un’efficace epitome: proprio compendia il concetto. La Giannetta ha portato sul palco i suoi “cinque guardiani”. Altro non sono che cinque persone non vedenti che le hanno fatto da consulenti sul modo migliore per impersonare una persona con disabilità visiva.
Se, invece di insegnarle come interpretare una cieca, si fosse trattato di consulenti sul modo migliore di tirare di scherma, piuttosto che di interpretare un hacker o una qualsiasi altra cosa che non avesse a che fare con la disabilità, nessuno avrebbe avuto niente da dire.
Ma non parliamo di scherma o di informatica o di un qualsiasi altro argomento “laico”. Parliamo di disabilità. E quindi di uno dei tre elementi della “Sacra tremorti” del politicamente corretto. Quelli che in altro contesto sarebbero stati dei semplici consulenti, qui si trasformano in dei “guardiani” che si ammantano quasi di una sorta di misticismo. NOn ammaestrano più soltanto come si interpreta la cecità, ma impartiscono lezioni di vita pregne di significato.
E così, ecco che un guardiano ammaestra sulla possibilità di “prendersi una pausa” e di vivere secondo i propri tempi e non più in base a quelli del mondo materiale. Un altro insegna con il proprio esempio il valore del coraggio. Altri due saggi dimostrano quanto non ci si debba vergognare di chiedere aiuto e quanto l’orgoglio possa essere in alcune circostanze un ostacolo.
Ma, sopra e oltre a tutto questo, quel che la Giannetta ci dice d’avere appreso, è come si possa percepire pienamente anche senza vedere. Beh, se non altro, ci è stata risparmiata l’abusata citazione del “Piccolo Principe” per cui “L’essenziale è invisibile agli occhi” perché “non si vede bene che con il cuore”.
Insomma, non c’è niente da fare. L’insegnamento più semplice che la nostra Maria Chiara avrebbe potuto apprendere è proprio quello di cui non ha parlato. Anche questa volta, la disabilità, per potere essere accettata, ha dovuto essere ammantata di eroismo, di misticismo. Sarebbe bastato dire che la lezione più preziosa è che anche da ciechi si può vivere e vivere ragionevolmente bene, senza andare a inventarsi improbabili ammaestramenti zen sull’essenza prima e ultima della vita. Ma, di nuovo, non è andata così.
Un’altra occasione persa, l’ennesima, per parlare della disabilità come una delle possibili dimensioni dell’esistenza umana, una delle tante possibili. Parlarne per come essa è, con i suoi limiti, cone le sue superstiti potenzialità e possibilità, senza addolcire le difficoltà che essa inevitabilmente porta con sé con improbabili insegnamenti. Se proprio l’unico modo che i media hanno per parlare della disabilità, forse forse, è meglio che proprio non ne parlino.
E prima “Il virus non circola, proprio non circola”. Questa era un obice burionico.
E poi “Milano non si ferma”.
E poi “Moriremo tutti), il che in effetti è l’unica cosa dannatamente vera, almeno sul lungo termine. E ci saranno 120.000 ricoverati in terapia intensiva: sarà un’armageddon. E poi ci saranno 30.000 positivi a Natale… Ce ne sono stati 50.000, il che rende evidente come il modello predittivo utilizzato valga quanto la lettura delle viscere fatta dagli aruspici.
E poi “Ne usciremo migliori`.. Sì,’sto gran cazzo.
E poi Palù che dà dello “zanzarologo” a Crisanti… Sempre perché si doveva uscirne migliori.
E poi stiamo lontani ora per abbracciarci dopo.
E poi “Il virus è clinicamente morto”: minchiata sparata dal calibro da ’88 di Zangrillo, con fuoco di copertura di Bassetti, che nonostante quest’epic fail non ha subito un decimo del ridicolo con il quale lui si permette d’incatramare e impiumare il prossimo.
E poi i droni all’inseguimento del camminatore solitario che, se anche non è colpevole di spargere il pestifero contagio, se poi si distorce una caviglia andrebbe ad occupare un posto al PS sottraendolo ai malati di CoViD o rischiando a sua volta di ammalarsi di CoViD.
E poi salviamo il Natale. Ma cerchiamo di far risorgere almeno la Pasqua.
E poi i casi a bassa intensità inviati nelle RSA e nelle RSC.
E poi due dosi proteggono per anni e chi dice il contrario dovrebbe farsi autore di quel bel tacer che mai vide le stampe. Altro strale dell’esimio Bassetti che, per aver scampato il ridicolo, evidentemente non ha appreso la prudenza… Perché… Contrordine compagni! Serve la dose che ottantuplica la protezione, roba che neanche lo scudo spaziale di Mazinga! Ma forse no, che in Terra Santa già s’accingono alla quarta dose. La chiameranno bi-buster, super-buster, iperbuster, strabuster o chissà che altro.
E poi le mascherine chirurgiche non servono. Contrordine! Le mascherine servono: ma bastano quelle chirurgiche e basta tenerle al chiuso. Contrordine al contrordine! Meglio le FFP2, anche al coperto. Contrordine del contrordine al contrordine: meglio tenerle anche all’esterno.
E poi il Green Pass: sì al ristorante, ma solo se mangi dentro e anche al bar, ma solo se ti siedi, mentre al bancone si può soprassedere. Sui treni a lunga percorrenza sì, ma sui regionali, sulla metro e sugli autobus no. Alt, camerati! Il GP serve rinforzato se vuoi consumare al ristorante, mentre basta quello tradizionale per i mezzi di trasporto: inclusi trenini locali e regionali, autobus e metro. Ma fino a ieri non serviva e si diceva che sarebbe stato impossibile implementare seriamente i controlli. Oggi cos’è cambiato? Un cazzo: x bigliettai c’erano ieri, x ce ne sono oggi!!! E quindi? E quindi un cazzo di niente, ma oggi per salire su un regionale da Milano a Torino serve il GP. Ma se serve oggi, perché non è servito fino a ieri? Serviva, serviva!!! Solo che c’erano motivi organizzativi che impedivano di implementare i controlli. E oggi quei motivi sono stati risolti? Ma certo che no. E quindi? E quindi niente. Ieri non si doveva avercelo per il regionalino Milano-Torino che c’impiega più del doppio della Freccia dove invece serviva, mentre oggi serve su entrambi, ma ieri non lo si poteva controllare mentre oggi nemmeno perché c’è un bigliettaio su 900 passeggeri… Roba che il disgraziato non c’ha tempo manco per pisciare…
E adesso il Green Pass s’è fatto nuova divinità: è uno e trino. C’abbiamo il Green Pass semplice che te lo accatti con il tampone. POi c’è il Super Green Pass. E poi il Mega Green Pass. E poi cosa? L’Alabarda Spaziale? I pugni atomici? Più che una dannata misura sanitaria o di politica sanitaria pare una specie di marketing per la fibra.
Ora, intendiamoci. È chiaro a tutti o dovrebbe essere comunque chiaro a tutti che questa è una situazione relativamente inedita, anche se gli epidemiologi ripetono da almeno vent’anni che, complice la globalizzazione, l’urbanizzazione di sempre nuove aree, l’aumento di contatti tra specie domestiche e selvatiche e i cambiamenti climatici, le pandemie non possono più essere considerate evenienze da film catastrofico, ma che sono avvenimenti che acquisiranno una loro triste ordinarietà e che devono essere messe in conto. E quindi nessuna persona dotata di anche soltanto esiguo raziocinio s’aspetta invincibile infallibilità dagli esperti. Si naviga a vista e tra le nebbie alla meglio. E va bene così. Ci si aspetta anche che luminosi intelletti del calibro di Eleonora Brigliadori, Montesano o dell’altro tizio che faceva il DJ e che adesso è divenuto alfiere del veganesimo e delle più ardenti posizioni no-vax liberino dalla bocca e dalle dita sciamanti orde di colossali cazzate. C’è gente che li prende sul serio, ma su questo non ci si può far nulla: qualsiasi società patisce, ineliminabile, un certo livello di idiozia. Quel che non tollero è l’arroganza degli “esperti” che, con monolitica sicurezza e troppo spesso anche con irrispettoso sarcasmo, canzonano qualsiasi dubbio od opinione divergente, salvo poi magari, piegati dai fatti, dovere abbracciare proprio le teorie che irridevano. Complice poi una stampa impreparata nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, servilmente asservita alla narrazione dominante, nemmeno devono rendere conto dei continui voltafaccia, delle mancanze di rispetto, delle dichiarazioni incoerenti, talvolta rese a distanza di pochi giorni l’una dall’altra. Se poi capita che qualcuno sfugga alla sindrome da oblio che pare essere più pervasiva della pandemia da COVID-19 e osa chiedere conto del perché ieri si sia detto A e oggi s’affermi con la medesima sicumera Non-A, ecco che si tira in ballo il carattere transitorio della conoscenza scientifica e il procedere della Scienza per prove ed errori. Tutte cose convenientemente dimenticate l’altro ieri.
Ora, ci sarà sicuramente qualcuno capace di sostenere che una dichiarazione della Brigliadori è un cataclisma esiziale che mina alla base lo sforzo vaccinale. Chi lo sa, magari io non ho capito un cazzo ed è vero. E magari occorre silenziarla, tacitarla, censurarla. Occorre chiudere i programmi di Giordana… Sul che sono anche d’accorso, ma per ragioni diverse… Ma mi chiedo… Fanno più danni le dichiarazioni squinternate di una tizia che asserisce di curarsi bevendo la propria piscia, quelle di un attore in vero abbastanza mediocre e di un ex DJ in semi-disarmo, oppure i litigi da prime donne di quelli che dovrebbero essere gli “esperti”, i loro voltafaccia, le loro contraddizioni costruite su dichiarazioni opposte, ma tutte proferite con identica certezza d’aver ragione, le norme scritte male? Quali tra questi due fattori ha fatto più danni e causato la maggiore confusione sotto il cielo? Davvero siamo dove siamo per colpa della Brigliadori, di Montinari, di Montesano e compagnia? Ma davvero davvero?
E quindi… Ancora, di nuovo e più forte che mai… Mi sono rotto il cazzo. E non pretendo che questo risolva nulla. Non pretendo nemmeno che interessi a qualcuno. Ma che mi sono rotto il cazzo, beh, questo sì, ci tenevo a dirlo. E adesso che l’ho detto, forse, sto meglio. O forse no.
Oggi quelli che “ben pensano” sono concordemente concordi sul fatto che il Green Pass sia strumento necessario se non sufficiente per garantire la sicurezza dei lavoratori.
Alcuni di quelli che “ben pensano” per non dire una grande maggioranza, sono anche concordemente concordi nel pensare che chi non si vaccina possa e debba essere colpito nel portafoglio. Est Verum Verbum Burionicum.
Alcuni arrivano persino a dire che, insomma, ‘sti renitenti potrebbero pure pagarsi le cure, rese necessarie dalla loro scelta colpevole. Se poi non hanno soldi, possono pure morire o indebitarsi. Est Verbum salvificum Capuae.
Ok.
E se domani, estendendo lo stesso principio, si dicesse che, insomma, chi si piglia l’influenza non dovrebbe più avere diritto alla malattia retribuita perché, in fin dei conti, poteva vaccinarsi? Il principio è il medesimo. Il CoViD uccide? Anche l’influenza lo fa. Lo fa di meno, ma lo fa. Il CoViD sottrae energie produttive? Anche l’influenza lo fa. Il CoViD è un costo sociale? Anche l’influenza lo è.
E se domani decidessero che chi non è vaccinato per l’HPV ed è nato dopo una certa data, se s’ammala di tumori correlati all’HPV, si paga le cure?
E se decidessero che chi ha un passato da tabagista si paga le cure per le malattie cardiovascolari, respiratorie ed oncologiche correlate al fumo?
E se decidessero che chi è obeso si paga le cure per il diabete, o per le altre mille e uno patologie correlate all’obesità?
Voi dite che chi non si vaccina contro il CoViD non fa male soltanto a sé, ma anche agli altri. Vero. Ma anche chi fuma, è in sovrappeso fa male non solo a se stesso, ma anche agli altri. Lo fa in maniera indiretta, certo, ma lo fa. Le patologie oncologiche correlate al fumo costano, ogni anno, miliardi di euro. E lo sappiamo che le risorse non sono illimitate, giusto? Quei miliardi che mettiamo per tentare di strappare da una precoce discesa nella fossa chi s’è affumicato i polmoni a 20, 40, 60 sigarette al giorno, non li possiamo mettere nella riabilitazione, nella prevenzione, nella cura dei bimbi con leucemia, magari, o per assicurare una buona qualità di vita ai nostri anziani, o in altri capitoli di spesa che potrebbero essere più meritevoli.
Perché mai pagare il cateterismo cardiaco al tizio che s’è foderato le arterie a suon di grassi idrogenati e cibo spazzatura? È un costo di centinaia di milioni l’anno. Risorse tolte ad altri settori.
Il diabete segue lo stesso tipo di ragionamento, almeno per quanto riguarda quello di tipo 2. Insulina, infusori, farmaci e, quando va male, invalidità derivanti dal diabete stesso come ipovisione, cecità o amputazioni. Sono tutti quanti costi sociali. Costi sociali che potevano essere evitati o ridotti se i soggetti avessero vissuto con maggior cura per la propria salute. Non farlo è stata una scelta loro. L’alternativa era disponibile. La malattia è stata dunque una conseguenza diretta delle loro scelte. È quindi una loro responsabilità. E se è stata una loro responsabilità, per quale ragione al mondo mai dovrebbe essere il “corpo sociale” ad assumersi il costo delle conseguenze. La stessa cosa si può dire anche dell’obesità. Pagare le cure per tutta questa massa di sconsiderati non è rispettoso per tutti quelli che si sforzano di condurre uno stile di vita più sano. Quelli si rimpinzano di tutto quello che va loro a genio, mentre questi scelgono con attenzione ciò che mangiano, rinunciando magari anche a cose che amano. Quelli prendono l’auto anche per attraversare la strada e considerano un atto d’indomito eroismo l’andare dal divano al frigorifero mentre già sognano dispense robotizzate semoventi che evitino loro l’ordalia della maratona domestica, mentre questi vanno in bici o a piedi e si svegliano ad ore antelucane per farsi i 5 chilometri di corsa di prammatica. Quelli sono egoisti, di vista corta e agiscono solo in base al principio del piacere: il loro. Questi sono responsabili, si curano della loro salute e, così facendo, hanno un atteggiamento di attenzione per sé, ma anche di cura per il corpo sociale. Perché i secondi dovrebbero farsi carico delle conseguenze del comportamento anti-sociale dei primi? Cuius commoda, eius; est incommoda: chi ne ha il vantaggio, ne paghi il danno. I primi hanno goduto il lusso di soddisfare gola e pigrizia, saziandosi d’ogni oscenità commestibile e poltrendo in barba a ogni ragionevole raccomandazione? Ne paghino il prezzo. Non possono? Beh, è un vero peccato. L’identico ragionamento può proporsi per il fumo. Certo, la nicotina crea dipendenza e, quando si comincia, è difficile smettere. Ma questo lo si sa perfettamente anche prima di cominciare. I dati sono disponibili. Sui pacchetti c’è scritto e ci sono anche le fotine oscene dei danni che il fumo può causare. Le informazioni sono disponibili. Scegliere di iniziare a fumare è esclusiva responsabilità dell’individuo. Ne consegue che le conseguenze derivanti, inclusa la dipendenza dalla nicotina, sono sua propria responsabilità. Fino al cancro ai polmoni, fino alla BPCO, all’infarto. Perché chi non fuma dovrebbe pagare le cure per chi ha scelto di intossicarsi con decine di composti cancerogeni con deliberata consapevolezza?
Dite che il CoViD è un’emergenza. Dobbiamo fare tutto il possibile per fermare la pandemia.
Perché, decine di migliaia di tumori l’anno che costano al SSN miliardi e miliardi non potrebbero agevolmente essere definiti un’emergenza? Ci sono farmaci per la cura del cancro che costano migliaia di euro per dose. Molti di questi malati richiedono lunghi ricoveri, occupano posti in terapia intensiva e, anche quando guariscono, prima diventano improduttivi per molto tempo e costringono anche alti (familiari) a diventarlo per assisterli. Dispositivi diagnostici e terapeutici sono impegnati per prendersene cura e questi stessi dispositivi, rari e costosi, se sono impegnati con loro, non possono più essere disponibili per altri malati più incolpevoli o, quanto meno, meno responsabili per la propria condizione.
Anche i tre milioni e mezzo di diabetici (numero in continua crescita) sono un’emergenza. Il SSN paga in media €15 per 100 unità internazionali di insulina da DNA ricombinante. E poi ci sono i costi legati al monitoraggio della glicemia. E, accanto a chi il diabete ce l’ha perché gli è toccato, ci sono quelli che ce l’hanno perché, in una certa misura, se lo sono “andati a cercare”.
Anche i malati di HIV possono essere considerati un’emergenza. La loro terapia antiretrovirale costa €1800 al mese al SSN. Mille malati di HIV costano al SSN, solo di farmaci, senza i controlli ematici e in assenza di complicazioni ventidue milioni di euro. E, a volere continuare con lo stesso tipo di ragionamento, questi ventidue milioni sono risorse che vengono sottratte ad altre persone, che magari non sono andate “a cercarsi” una malattia facendo sesso non protetto a destra e a manca. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2019 ci sono state più di 2500 nuove diagnosi di HIV e l’84,5% dei casi era legato al sesso non protetto.
Intendiamoci bene, io non sono d’accordo con nessuno dei ragionamenti precedenti. Secondo me, tutti hanno diritto ad essere curati, sempre e comunque. Senza eccezioni. Se si fa tanto di iniziare a ragionare in un certo modo, la deriva diventa poi difficile da fermare, perché l’analogia è un meccanismo mentale potente, anche quando le proposizioni che sembra dimostrare in realtà hanno poco di vero, di logico o di evidente.
Un’emergenza la si può anche creare. E non si tratta d’essere complottisti, ma di mantenere o sviluppare la consapevolezza che emergenza non è soltanto ciò che effettivamente è un’emergenza, ma anche ciò che si decide che è “emergenza”. Politicamente, mediaticamente, lo si può fare. È stato fatto. Volete qualche esempio?
Per anni ci hanno martellato in testa l’idea che in Italia esistesse “un’emergenza sicurezza”. Dalle colonne dei giornali ci veniva descritto un paese insicuro, violento. Le strade erano ritratte come giungle urbane. Dietro ogni angolo c’era in agguato un predatore crudele, pronto a rapinare, violentare, aggredire, uccidere. I telegiornali coprivano ogni delitto con morbosità. E quando non c’erano nuovi fatti di sangue sufficientemente efferati, si riprendevano finti aggiornamenti di quelli già coperti. In prima serata sono fioriti programmi di… “Approfondimento” nei quali centurie di esperti veri, finti, presunti e sedicenti, con il bravo seguito di opinionisti buoni che hanno opinioni su ogni fatto e per ogni tema ma mai un dubbio o un’incertezza, evisceravano la decenza, mettendo in pubblica vista ogni più stupido e insignificante, truce e osceno dettaglio, per celebrare processi mediatici, creare mostri, aumentare la paura. Ogni omicidio o rapina in casa ha goduto di un numero pari almeno a 2 se non 3 servizi in prima serata… Il risultato finale è stato che tutti quanti, chi più e chi meno, ci siamo convinti di vivere in una specie di riedizione del far west.
E non sono stati pochi i politici che hanno basato su questa premessa la loro fortuna elettorale e poi la loro azione di governo. Ma, forse più grave, anche le forze di opposizione non hanno saputo confrontarsi sul dato reale tentando almeno di smontare la narrazione che veniva proposta. Si sono limitate a tentare di vendere una paura diversa. Da un lato, a tutti noi veniva venduta l’idea che nessun luogo era davvero sicuro, nemmeno l’interno delle nostre case. Dall’altra parte, ci si proponeva l’emergenza “ritorno dei fascisti”. E questo dramma ha avuto due protagonisti: uno che ha brillato per presenza costante, l’altro che s’è fatto notare per la sua mancanza. La Grande Protagonista è stata la paura e la costruzione di uno stato mentale di emergenza: che fosse l’emergenza sicurezza o l’emergenza “ritorno delle camicie nere” cambia poco, sempre emergenza è. La grande assente è stata la verità.
Già. Perché il problema era ed è che in tutto questo c’era ben poco di vero. Non esisteva nessuna “emergenza sicurezza”; in Italia non ne esiste una da almeno vent’anni. I reati sono in quasi costante declino da vent’anni. E certamente lo sono gli omicidi che, se negli anni ‘90 ammontavano a oltre 2000, nel 2018 erano 345 e nel 2019 315. Meglio di noi soltanto il Lussemburgo. E certamente non esisteva un’emergenza rapine in villa: sono più frequenti le morti durante gli incidenti di caccia che quelle per rapina in casa. E certamente non esisteva nessuna emergenza “ritorno delle camicie nere”; anche se, in effetti, però, forse forse la profezia. Per essere stata proferita, sarà la causa della sua stessa realizzazione.
Un’altra emergenza? I finti invalidi! Se ne parlò per mesi e mesi. Apparvero titoli sui maggiori quotidiani e telegiornali. Sarebbe stato “falso” un invalido su 4: il 23% strillavano sdegnati alcuni. Un esercito di scrocconi che privavano i “disabili veri” di quanto era loro dovuto e necessario… Panorama pubblicò addirittura una vergognosa copertina in cui un Pinocchio sedeva in sedia a rotelle, con in bella vista la scritta “scrocconi. Era il marzo 2011, se non ricordo male. Eccola qua la copertina della vergogna…
Tanto si disse e tanto si fece, che venne messa in piedi una gigantesca, folle, mostruosa operazione di revisione. I numeri furono impressionanti. Tra il 2009 e il 2013, furono sottoposte a revisione 854.192 persone. Tra di esse, amputati, persone con patologie degenerative che possono soltanto peggiorare e certamente mai migliorare, ciechi con protesi bilaterali, persone con autismo. Nel carnaio ci finì di tutto. Senza discrimine. Senza considerazione. Senza pietà.
I risultati? Ridicoli.
Sulle 854.192 verifiche, soltanto 67.225 portarono a una qualche revoca. E il 23% di 854.192 è 196.464. Siccome però INPS si era accorta che la mastodontica campagna di verifica straordinaria non stava avendo nemmeno un decimo del successo stimato, incluse nelle verifiche straordinarie anche i beneficiari per i quali già era stata prevista una revisione: per esempio i malati oncologici. Insomma, per ottenere un numero più alto di revoche, INPS ha inserito deliberatamente nel numero delle verifiche straordinarie persone che avevano una più elevata probabilità di revoca, perché le prestazioni di cui godevano erano presumibilmente legate a un momento di particolare fragilità e necessità.
Il ciclopico risparmio ottenuto da INPS, al termine di quest’abnorme oscenità, fu di 352,7 milioni di euro. Da questa cifra vanno però sottratti i 101,2 milioni di euro che INPS spese in consulenze mediche esterne: mica l’Istituto poteva pensare di sostenere una campagna del genere con il solo, scarso personale interno! Vanno tolti un altro 70 milioni per spese di struttura: il tempo degli impiegati, la spedizione di tutte quelle raccomandate e via ad andare. Il risparmio scende dunque a 181,5 milioni». E c’è ancora da togliere il contenzioso. Già, perché chi si vede levare le provvidenze spesso fa ricorso. E INPS perde in non meno del 45% dei casi, sicché si trova costretta a restituire le provvidenze sospese, gli arretrati e a pagare le spese di giudizio. E così se ne sono andati altri 70 milioni di euro del fantastico risparmio. Fatti tutti i conti e fatti anche con prudenza, INPS ha risparmiato affrontando questa terribile emergenza emergenziale la cifra stratosferica di 111,5 milioni, meno dell’1% di quanto spende ogni anno in pensioni d’invalidità e assegni di accompagnamento. Questa la fonte dei dati, se interessa.
Campagne stampa sono state organizzate, persone sono state sbattute in prima pagina ed etichettate come ladri quando in realtà disabili lo erano davvero, e tutto questo per quelle che, fatte le debite proporzioni, sono briciole. Sarebbe come se uno mettesse a soqquadro casa, per risparmiare, su uno stipendio di €1400, poco più di €12. Ecco l’emergenza “falsi invalidi”, ridotta ai suoi numeri postumi. Numeri che però non sono arrivati alla grande stampa generalista. Nell’opinione pubblica, ancora oggi, alligna la convinzione che ci siano centinaia di migliaia di falsi invalidi. Di quando in quando, qualche servizio giornalistico torna a parlare del cieco che va al bar da solo o del paralitico ballerino o di Dio solo sa che altro. Di tanto in tanto, qualche politico torna a ventilare l’ipotesi di riprendere la caccia: dobbiamo pur nascondere sotto il tappeto di un furore legalizzatore la polvere dei fatti che siamo il terzultimo paese europeo in termini di. Spesa per pensioni d’invalidità in rapporto al PIL, no? Fine della gravissima emergenza falsi invalidi.
Ce ne sarebbero tante altre. L’emergenza dei “furbetti del cartellino”. Oppure l’emergenza dei “furbetti del certificato” che spinse il Ministro Brunetta a rendere draconiana la disciplina della malattia per i pubblici dipendenti, aumentando il periodo di reperibilità che originariamente era, per tutti, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 a una roba del tipo dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20. Che i dipendenti del Privato all’epoca facessero più malattia di quelli del comparto pubblico era un fatto che non interessò mai a nessuno.
Ma un’emergenza non fu mai e continua a non essere la demolizione costante del nostro SSN. In vent’anni, abbiamo perso migliaia di posti letto. Plessi ospedalieri sono stati chiusi. I rubinetti della formazione universitaria sono stati stretti. E così, ora, la sanità di prossimità, già gravemente provata da tagli e riforme creative nel nome dell’efficienza, adesso fronteggia il pensionamento di migliaia di medici di medicina generale, che nessuno ha la minima idea di come diavolo sostituire, se non aumentando il numero massimo di pazienti che i medici rimasti sul campo possono prendere in carico, senza che però questa presa in carico possa corrispondere in qualche modo anche a una presa in cura. Intere comunità rischiano di ritrovarsi senza medici di base e senza plessi sanitari: i primi se ne sono andati in pensione, i secondi sono stati chiusi. Questa sì che è una reale emergenza: milioni di cittadini che vengono messi in uno stato di impedito o difficoltoso accesso alla sanità sono un’emergenza grave, gravissima. Ma… Semplicemente, nessuno ne parla.
L’emergenza è soprattutto una costruzione culturale: sociale, mediatica, politica, economica. Sanitaria? Sì, certo, anche sanitaria. Ma è soltanto uno degli elementi che concorre a definire ciò che si può a tutti gli effetti considerare il “prodotto emergenza”. Ogni anno migliaia di persone muoiono per incidenti automobilistici. Altre decine di migliaia rimediano un’invalidità permanente per la stessa causa. Ma nessuno si sogna di definire un’emergenza “traffico automobilistico”. S’insiste sulla responsabilità individuale, certo. Si è persino istituito il reato di omicidio stradale. Nessuno però parla ad alta voce del fatto che, se hai milioni e milioni di automobili in giro ogni minuto, che qualcuno ci lasci le penne è semplicemente un’iinevitabilità statistica. Soprattutto se, spesso, un’alternativa al trasporto privato individuale di fatto non esiste.
Tutto questo per dire che cosa?
Beh, semplicemente, che c’è o può esserci sempre un’emergenza: vera, verosimile o del tutto costruita. E che anche un’emergenza reale non dovrebbe mai essere una ragione sufficiente per sospendere il giudizio critico sulle misure scelte per affrontarla.
È possibile che il Green Pass sia necessario? Sì, certo, è possibile. Personalmente ho più di una ragione che a me pare valida per ritenerlo brutale, meschino, ricattatorio e in ultima analisi eticamente questionable, ma sono mie opinioni personalissime. Ma, al di là di questo, trasporre l’Intera questione della lotta alla pandemia sul piano dell’essere pro o contro al green pass o alla vaccinazione, a me pare un tantino superficiale. Certo, abbiamo davanti un’emergenza che va combattuta coi mezzi che abbiamo a disposizione. E, probabilmente, emergenza sarebbe rimasta anche in altri e più favorevoli contesti. Ma, numeri alla mano, cosa ci ha reso ancora più fragili davanti a quest’onda anomala? La demolizione della sanità di prossimità, la chiusura di innumerevoli plessi ospedalieri, l’eliminazione di centinaia e centinaia di unità di terapia intensiva, la devoluzione di preziose risorse al sanitario privato, l’indebolimento della formazione universitaria, il taglio del personale infermieristico e OSS. Tutto questo è stato compiuto sotto i nostri occhi nel nome dell’efficienza.
In ultima analisi, abbiamo osservato il mare e abbiamo visto che, tutto sommato, di grosse tempeste non ne scatena tantissime. E così, abbiamo progettato, con assoluta, folle razionalità, un meraviglioso bastimento in grado di reggere il mare di tutti i giorni e, sia pure con un po’ di stress aggiuntivo, anche qualche maretta, addirittura qualche mareggiata di quelle un po’ più intense. Ma tutto qua. Pareva del tutto ragionevole, razionale, efficiente. Abbiamo fatto le paratie un po’ più sottili, abbiamo risparmiato sullo spessore dello scafo, i motori li abbiamo installati un po’ meno potenti e le scialuppe… Beh, di Titanic ne è successo soltanto uno no? Poi però è arrivata la tempesta quella vera, quella dura, quella incazzata. E così le lamiere dello scafo hanno cominciato a flettersi. Qualche saldatura ha iniziato a far filtrare acqua. Pezzi della sovrastruttura se ne sono andati via. I motori non avevano la potenza necessaria per garantire il governo dell’imbarcazione. E non avevamo nemmeno abbastanza marinai per tenere sotto controllo i danni, perché anche i marinai costano e perché mai imbarcarne più di quanto appare ragionevole, razionale, efficiente? E così quello che in porto e a mare calmo appariva un progetto prodigioso per efficienza e razionalità, alla prova dei fatti si è rivelato per quel che era: una trappola, una bagnarola fetente e micragnosa, buona a navigare in un bacino. Certo, al momento,, c’è da aggottare furiosamente, anche perché le pompe di sentina non ce la fanno da sole a tenere fuori tutta l’acqua che entra dalle saldature che non hanno tenuto. Ma, mentre si fa il possibile per non andare a finire a far compagnia ai pesci, non sarebbe male imparare la lezione, così da progettare qualcosa che il mare riesca a tenerlo per davvero.
Ecco, questo passaggio a me pare che un po’ manchi. Anzi, per dirla tutta, a me pare che manchi del tutto. La pandemia è stata una crisi di dimensioni importanti. Ma, nel classificarla e affrontarla (male) per l’emergenza. Che probabilmente sarebbe pur rimasta anche in condizioni di partenza un po’ meno disastrose di quelle in cui ci siamo fatti sorprendere, abbiamo perso l’occasione di riflessione che la crisi pure ci offriva. E così, abbiamo aggottato furiosamente, abbiamo stretto i denti e abbiamo appeso al pennone più alto i disfattisti che denunciavano le pecche strutturali gravissime del nostro aspirante sommergibile. E, se Dio vorrà, supereremo la tempesta, rivedremo il sole e il mare la smetterà di squassarci lamiere e carni per ricominciare a farci ondeggiare al suo lento, consueto, antico ritmo. E continueremo a navigare.
Messaggio al bastardo che quest’oggi attorno alle 16:50 Sul treno interregionale da Bologna a Venezia Santa Lucia, all’altezza della stazione di Padova, mi ha rubato lo zaino con dentro il bastone bianco, il computer, una borraccia e un paio di cuffie.
naturalmente ti perdono per aver fatto quello che hai fatto. Nel perdonarti, però, con fervida fermezza ti auguro, prima di tutto, di poter avere la meravigliosa esperienza di diventare disabile.
E poi, caro bastardo, Affinché tu possa sviluppare l’empatia e la simpatia nei confronti anche della peggiore feccia che costituisce parte dell’umanità, feccia di cui al momento tu fai incontestabilmente parte, ti auguro, dicevo, che qualcuno approfitti della debolezza derivante dalla tua nuova disabilità per farti tanto male.no, non sto parlando di male fisico.quello non te lo auguro perché da quello se guarisce senza eccessivi problemi. Basta, al limite, un buon rianimatore, un discreto ortopedico e un terapista della riabilitazione senza eccessiva pietà.
Parlo di quel male che deriva dal maturare la consapevolezza che, alla fine, basta che un balordo lo decida, e la tua disabilità diventa un punto debole del quale davvero chiunque può approfittarsi, basta che lo voglia.
Parlo di quel senso di precarietà che deriva dalla consapevolezza di dipendere, in maggior misura che tutti gli altri, dalla propensione del prossimo a non fare il male, perché, quando il prossimo decidesse di farlo questo male, la tua disabilità ti metterebbe in una posizione di accresciuta debolezza e di diminuita capacità di difesa o anche soltanto di consapevolezza.
Quando il mio augurio un giorno dovesse realizzarsi, allora capirai quanto è sottile la pellicola della civiltà e quanto le persone in maggiore difficoltà ne hanno bisogno e quanto male fanno, da un punto di vista esistenziale, le persone che si comportano come te instillando in quelli che già di loro vivono una situazione di fragilità e precarietà, un senso di insicurezza ancora maggiore, ancora più profondo.
Probabilmente nemmeno leggerai questo post. Anzi, ne sono praticamente sicuro. E anche se dovessi leggerlo, sicuramente non te ne fregherebbe nulla. Quello che sei e che sei riuscito a rubare con estrema facilità e scarsissimo rischio di essere identificato o anche soltanto visto, visto che hai rubato a un cieco, un bello zaino seminuovo, delle cuffie professionali usate molto poco, un computer portatile in ottimo stato che, se anche non è proprio l’ultimo grido della tecnologia, non fa nemmeno poi schifo, caricabatterie, cavi e tutto quello che serve.
E magari ti stai sentendo tutto fiero di questo “colpo facile”! Mica capita tutti i giorni il colpo di culo di trovare un orbo che viaggia da solo in una carrozza quasi completamente vuota! Napoleone disse: “Datemi dei generali fortunati!” Varrà pure anche per i ladri questo detto, o no?
Chissà cosa te ne farai dei soldi che guadagnerai rivendendo quello che mi hai rubato. Se già non hai venduto tutto, scaraventando lo zaino da qualche parte, magari dalle parti di via Aspetti a Padova.
A me resta l’onere di trovare il modo di ricomprare tutto quello che tu mi hai rubato. A proposito… Anche il bastone bianco m’hai rubato… Uscire dalla stazione di Treviso senza averlo in mano, confidando in quella pochissima vista che mi rimane e sugli altri quattro sensi, senz’assistenza, non è stata una passeggiata di salute, al punto che, quasi quasi, mi fa passare la voglia di perdonarti. E mi rimane anche da ricostruire quel bozzolo di salvifica incoscienza, unico strumento protettivo che consenta a chi ha una disabilità di affrontare in qualche un modo un mondo i cui spigoli non sono stati pensati per accomodare chi ha qualche svantaggio in più.
È questo il danno più grande che mi hai fatto. Non già il furto delle cose che erano nello schermo. È la terrificante, serpeggiante sensazione d’insicurezza che ti spinge a riflettere sul fatto che la tua disabilità, indipendentemente da quanto possa essere reso accessibile architettonicamente e urbanisticamente l’ambiente in cui vivi e ti muovi, costituisce e costituirà sempre un elemento di debolezza ineliminabile di cui chiunque voglia potrebbe, volendolo, approfittare con buone probabilità di farlo a man salva. È un’insicurezza corrosiva, cui sarebbe meglio non pensare e cui, di fatti, normalmente non si pensa. Ma poi ti capitano sul cammino della vita bastardi come te… E allora diventa impossibile non pensarci e la sola cosa che puoi fare è sperare di riuscire a smettere di arrovellartici sopra il più presto possibile.
Ti maledirei, se servisse a qualcosa… Se anche solo riuscissi a pensare che potrebbe servire a qualcosa. Ma, siccome so che benedizioni e maledizioni sono aria fritta, altro non mi resta, appunto, che il perdono. Non posso odiarti. Non posso nemmeno disprezzarti. Dopo tutto, forse, nemmeno è colpa tua se ti comporti da spazzino di carogne. Magari avrai avuto una brutta infanzia. E, di conseguenza, razionalmente, altro nom mi resta che perdonarti. Ma la speranza che tu possa un giorno capire quel che hai fatto dovendolo passare tu sulla tua pelle, questa no, non riesco a fare a meno di concedermela.
Caro S, M’è preso un colpo quando ho visto, l’altro giorno, il tuo nome nell’elenco dei soci della mia sezione che ci hanno lasciato.
Eri anziano, sì, certo. Ma non eri poi così vecchio. Quando ho letto il tuo nome, ho voluto sapere com’era successo. E così ho scoperto che anche tu sei stato portato via da questa maledetta malattia che ha accarezzato anche la mia vita: ben più lievemente di quanto non abbia fatto con la tua, ma comunque con sufficiente rudezza per farne percepire l’estrema fragilità. Quella che per troppi sarebbe “poco più che un’influenza”. Quella che, in un anno, ci ha regalato decine di migliaia di vittime. E, disperso chissà dove in quello sterminato elenco, adesso so esserci anche il tuo nome.
Sei arrivato da me come arrivano molti della tua età. Stavi velocemente e inesorabilmente perdendo la vista. Oramai, quella che ti rimaneva era più un’idea di vista, che una vista vera e propria. Eppure, a settantotto anni, hai avuto più coraggio e intraprendenza di molti più giovani di te. Ti sei iscritto da noi. E, come prima cosa, hai voluto acquistare un bastone bianco per potere continuare a muoverti in sicurezza. Dopo questo, hai voluto imparare a usare l’iPhone. Hai voluto imparare come si mandano messaggi con WhatsApp, come scaricare applicazioni, come usare il libro parlato, come ascoltare podcast, come servirti del cellulare per leggere testi a stampa.
E tutte queste cose le hai imparate. Le hai imparate bene. Pur continuando a perdere vista fino a diventare cieco assoluto, hai voluto continuare a venire in sede: per prendere lezioni, per pagare la tessera, talvolta anche soltanto per fare un saluto.
In qualche modo, hai saputo riempire di nuovo di senso la tua vita, hai reinventato nuovi modi per continuare a fare le stesse cose che facevi prima di perdere la vista: muoverti, leggere, cucinare, restare in contatto con chi ti era caro.
In un certo senso, temevo le tue chiamate. Perché eri esigente. Le tue non erano domande oziose, fatte così, tanto per fare. Erano domande sorrette da un reale bisogno, che rispondevano a una sentita esigenza di autonomia, autosufficienza, desiderio di vita e di vita di qualità. Erano domande esigenti, che caricavano il destinatario della responsabilità di dare risposte fattive, puntuali.
Poi, sei scomparso.
Ma io ero (e sono) troppo immerso in torrenti di continue emergenze e urgenze. Sì, avevo notato che non ti facevi più sentire. E mi ripromettevo di chiamarti, di chiederti com’è che andava KNFB-Reader, o se riuscivi a cavartela con l’ultimo aggiornamento di questa o quell’applicazione. Ma non ho avuto il tempo. Non riuscivo mai ad avere il tempo Un tempo che continuava (e continua) ad essermi rubato da infinite minuzie: riunioni, teleconferenze, burocrazia, firme, carte.
E così te ne sei andato, senza quasi che me ne accorgessi. E soltanto quel nome in quella lista mi ha costretto a prendere dolorosamente atto che non ci sarebbero più state “domande esigenti”.
Non potrò mai più dirtelo di persona. Ma voglio che, là fuori, il maggior numero di persone sappia che sei esistito e che, a mio modo, ti ho senz’altro voluto bene e che certamente ti ho stimato. Io ti ho fornito il materiale, ma tu ci hai messo la grandezza e la sostanza: il coraggio di reimmaginare un altro te stesso e di non porre fine al tuo progetto di vita: nonostante l’età, nonostante il macigno che t’è piovuto addosso.
Buon viaggio S: ovunque ti porterà, sarà un luogo dove senz’altro saprai fare buon uso di te stesso.
È una sera come tante per T, che s’alza dal letto per fare pipì. Ma, quando ci ritorna, qualcosa accade. Tenta di parlare, ma la parola incespica nella gola, non esce, s’incanta, s’ingarbuglia. La lingua s’annoda.
Fortunatamente sua moglie è un’ex infermiera e riconosce i sintomi di un ictus. Chiama immediatamente un’autoambulanza che lo porta di filato in ospedale. Nonostante la tempestività dell’intervento, però, il danno è serio. Non si tratta di un vero e proprio ictus, quanto di un’ischemia emorragica: da qualche parte, nel cervello, una vena o un’arteriola s’è rotta e ha sparso sangue dove non doveva essercene, impedendogli d’arrivare, con il suo carico vitale d’ossigeno, dove c’era bisogno di lui.
La vita è fragile cosa, fragile quanto il tessuto del cervello, che inizia a morire qui per la carenza d’ossigeno, là per la pressione del sangue che sta dove non dovrebbe esserci. E, nonostante si sia intervenuti rapidamente per riparare il danno, le conseguenze ci sono e non sono lievi.
T va in coma. Rimane per molto tempo nell’Unità di Terapia Intensiva e, quando si risveglia, perché alla fine ce la fa, non è più la stessa persona di prima. Ha grosse difficoltà di parola e un lato del suo corpo non risponde più come faceva prima.
La riabilitazione cui lo sottopongono migliora un po’ le cose, ma non abbastanza perché T possa ritornare a fare una vita del tutto autonoma. Ha e avrà sempre bisogno di un’assistenza continua, un’assistenza che la moglie, anche lei non più giovanissima, non è in grado di fornire.
E così, la sofferta decisione di ricoverare il buon T in una RSA… Una casa di riposo in sostanza.
Ogni normalità ferita anela alla cicatrizzazione di una nuova consuetudine. Per questo, per quanto sia grave il trauma, profondo il dolore, tutti cerchiamo di ritrovare l’equilibrio di una nuova routine. E questo fanno T, sua moglie, il figlio e i nipoti. T s’assesta nella sua nuova “normalità”. Piano piano, passa dalla nutrizione parnterale a quella per bocca, sia pure assistito e aiutato dalla moglie e dagli operatori della RSA. Ricomincia, piano piano, a muoversi usando la sedia a rotelle, esplorando i limiti e le potenzialità della sua nuova forma di autonomia. Sua moglie gli sta vicino: tutti i giorni, tutto il giorno.
In una parola, la vita continua.
Poi però arriva il COVID-19.
Nella RSA di T in molti si ammalano, sia tra gli operatori che tra gli ospiti. Ma T no. Nonostante la sua fragilità, T non s’ammala. Non mostra sintomi e i suoi tamponi rimangono negativi. Ma questo non gli è di grande aiuto. Gli operatori, nello sforzo di tenerlo lontano dal rischio, gli tolgono le visite della moglie e gli levano anche la carrozzina: non sia mai che, andandosene a zonzo per la struttura, toccando qui e là, non si prenda il maledetto COVID-19. Siccome però T non s’arrende al restringersi dei suoi spazi di libertà, attorno al suo letto s’erigono le sponde di contenimento e attorno al suo torace si stringe la cinghia di contenzione.
T Ibizia a rifiutare il cibo. Deperisce e, infine, muore. Fortunatamente non da solo che la testardaggine della moglie riesce, se non altro, a risparmiare a T almeno quest’ultima atrocità. Ma comunque muore.
T non è una vittima del COVID-19, non rientra nel computodei morti che ogni giorno ci viene scaraventato addosso dai giornali, dai social e dalla TV. Il suo tampone non è mai stato positivo, né ha mai sviluppato anticorpi. T è molto probabilmente una delle vittime, probabilmente nemmeno poche, delle misure che abbiamo preso per salvaguardare le vite dal COVID. Solo che per salvare la vita, abbiamo finito con il renderla meno degna d’essere vissuta.
Gli amanti di Star Trek forse ricordano una razza incontrata dalla USS Voyager nel quadrante Delta. Sono i Vidiani. Questa razza, pure tecnologicamente molto avanzata, soffre da millenni di una malattia terribile: la “fagia”. È una malattia contro la quale nemmeno le avanzatissime tecniche vidiane possono molto: degrada organi, muscoli e nervi, causando alla fine la morte, nonostante qualsiasi tentativo di cura. La sola cosa che si può fare per rallentare il decorso sono i trapianti di tessuti. Tutto nella civiltà vidiana è indirizzato a questo scopo. Tecniche sono state inventate per annullare il rischio di rigetto dei tessuti trapiantati, anche quando provengano da esseri di altri mondi. Persino la tecnologia del teletrasporto è stata riadattata per permettere la predazione rapida di organi e tessuti. In una delle puntate di ST-Voyager un personaggio di questa terribile, tragica razza, finisce con il dire qualcosa come: “abbiamo passato così tanto tempo a tentare di salvare vite, che abbiamo dimenticato come viverle”.
Certo, è soltanto fantascienza, ma…
Nella nostra civiltà abbiamo fatto di tutto per allontanare la morte. I cimiteri sono fuori dai centri abitati, non si muore più in casa, ma la più parte delle volte in ospedale o in altre sturtture. Dei funerali non si parla e del morire menché meno. L’invecchiare è visto con profondo sospetto e le sue manifestazioni osservate con sospettoso sgomento.Cantiamo, con deliberata incoscienza, il peana di una vita infinita e di un’ininterrotta giovinezza in cui i corpi dovrebbero rimanere sempre e pienamente funzionanti, possibilmente belli. Combattiamo la nostra mortalità e, quando non possiamo, semplicemente, la rimuoviamo dall’orizzonte di senso del nostro discorso. Censuriamo la caducità esistenziale del vivere. E, per una volta, la medicina in questo ci aiuta, protegge e sorregge.
Poi ecco che arriva un virus. Una cosa che non è né viva, né morta. Ma uccidere questo sì che lo sa fare abbastanza bene. E lo fa. E riporta prepotentemente la morte al centro del discorso: privato, pubblico, politico e mediatico. Quanto più qualcosa è stato rimosso, con tanta maggiore preminenza e prepotenza si riafferma. E la morte questo ha fatto negli ultimi mesi. Con i numeri tutti i pomeriggi alle diciotto, con i cortei delle bare portati dai camion dell’Esercito… Con i discorsi fatti a mezza voce tra amici, parenti e conoscenti. La morte è tornata, per ricordarci che, dopo tutto, non se n’era mai andata.
E noi l’abbiamo combattuta. Con tutti i mezzi che avevamo. Alcuni l’hanno negata, dicendo che, dopo tutto, non si muore “di COVID” ma “con il COVID”, tentando inconsciamente di rimuovere l’eccezionalità dei tempi che stiamo pure vivendo. Altri hanno fatto ricorso a ogni misura ipotizzabile e possibile per negare a questo nuovo messaggero di Thanatos l’ingresso ai nostri corpi. A tal punto hanno lottato contro la morte, da rendere intollerabile la vita.
Io non ho facili soluzioni da indicare: non so nemmeno se ve ne siano. Altri, più intelligenti di me, spero, sapranno divisarne. Ma, mi chiedo, per T e per molti altri non sarebbe stato forse meglio correre i loro rischi con il nuovo virus, piuttosto che vedersi privare di tutto ciò che rendeva la loro vita degna d’esser chiamata tale?
Oggi vi conto la Storia del Pesce d’aprile che in Laguna di Venexia vive ben oltre il primo d’aprile.
Con squillo di tromba e sonar di fanfara, il Governatore Luca, che oramai per sopravvenuta affinità per chi lo ama e sfiancata assuefazione per chi… Come dire, non lo ritiene esattamente ‘sta galattica eccellenza, lo chiamiam tutti così, annunciava il varo della piattaforma di Serenissima Vaccinazione.
In qualità di talpa bipede certificata con debita garanzia di effettiva gravità, il vostro umile autore, già il primo d’aprile si scaraventava sul portale per mettersi in fila. Ma, attesa sorpresa, causa esaurimento vaccini la piattaforma avrebbe visto il suo varo soltanto il 2. Il 2 mattina son stato troppo impegnato a trovare un modo perché venisse sera e così…
La mattina del 3 ricevo una chiamata di un’amica che mi dice che, pur avendone effettivamente diritto, non le riusciva di prenotarsi: anche lei talpa bipede e dotata del relativo marchio di effettiva gravità.
Messo in allarme, ho provato io pure a imbarcarmi nell’impresa. Mi sono collegato al grandioso sito, ho inserito il mio codice fiscale e…
Screenshot della schermata del portale che riporta la scritta “Attenzione non appartieni alle categorie che attualmente possono prenotare”
E siccome che sono ciecato, ma sono anche presidente di una sezione locale di un’associazione di ciecati, ho voluto fare una prova e ho tentato di iniziare il processo di registrazione usando come credenziali i codici fiscali di alcuni miei soci che sapevo per certo avevano i requisiti. In breve, ho fatto il tentativo con 15 nominativi. per tre di questi il meraviglioso portale per le vaccinazioni Regione Veneto riporta che avevano già iniziato il percorso vaccinale. Dei restanti 12, 6 il sistema li accettava, mentre per altri 6 il messaggio rimaneva: Attenzione non appartieni alle categorie che attualmente possono prenotare”.
E siccome che sono ciecato, capita che di altri ciecati, in giro per la Regione ne conosca diversi altri. E non sono proprio pochi quelli che, nelle varie AULSS, denunciano problemi identici ai miei.
e mentre facevo tutti questi bei tentativi, mentre tentavo di entrare in contatto con il favoloso numero verde, il tempo passava e mi è venuta la luminosissima idea di entrare con il codice fiscale della mia genitrice. E ho scoperto che, mentre io tentavo inutilmente di capire il come e il perché non mi riuscisse di prenotare una vaccinazione di cui, secondo ogni linea guida di ‘sto paese in deriva verso la follia virale avrei ogni diritto, altri la prenotazione l’avevano pur fatta, esaurendo, almeno per il momento, tutti i vaccini disponibili.
Screenshot della pagina web che mostra l’esaurimento dei vaccini disponibili nei vari centri di vaccinazione.Screenshot della pagina web che mostra l’esaurimento dei vaccini disponibili nei vari centri di vaccinazione.
E così, a distanza di 6 giorni dal varo in pompa magna dello splendentissimo portale per le vaccinazioni, ancora non sono riuscito a prenotarmi, né mi è riuscito di palare con qualcuno che sappia spiegarmi il come e il perché ciò non sia possibile, né sono di un passo più vicino a capire come rendere possibile ciò che avrebbe dovuto essere semplicemente automatico. In fondo, che diavolo ci vuole? Se hai una disabilità in stato di gravità, hai diritto alla priorità vaccinale. Non c’è niente di complicato, niente di astruso, niente di irrimediabilmente ingarbugliato.
Sono sicurissimo che, prima o poi, riuscirò ad avere un contatto con qualcuno che mi saprà escogitare una qualche spiegazione sul perché una cosa apparentemente banale come l’inserire tutti i disabili in stato di gravità all’interno di una lista ordinata per codice fiscale si sia rivelata a tal punto complessa che, fatto un controllo a campione totalmente casuale su 14 aventi diritti, 6 risultavano non presenti nelle liste. E sono anche fiducioso nel fatto che questa spiegazione sarà persino vera. Ma non è questo il dannato punto. Non più.
In questa stramaledetta pandemia, le persone con disabilità sono sempre e comunque state fanalino di coda. Sempre, senza eccezione.
Quando è iniziata l’emergenza, i vari CEOD, centri residenziali e consimili strutture sono stati chiusi e chi vi era ospitato è stato semplicemente scaraventato in carico alla famiglia di origine, senza nessuna valutazione preliminare caso per caso se e su quanto questa fosse in grado di sobbarcarsi il carico assistenziale. Già, perché in non pochi casi, le famiglie erano composte soprattutto, se non esclusivamente, da persone anch’esse fragili: spesso anziane, con patologie pregresse. Non è importato a nessuno e, se anche è importato, non è importato abbastanza perché si facesse qualcosa in merito; tant’è che qualcuno per questo è anche morto: sia tra le persone con disabilità che tra i caregiver, di cui nessuno ha avuto cura… Ma tu guarda un po’ che novità! Di più, spesso, se non sempre, l’assistenza domiciliare è stata sospesa e talvolta non per poco tempo.
I lavoratori disabili e in stato di fragilità, hanno vissuto per mesi e mesi in un limbo in cui non hanno potuto sapere da nessuno se le assenze parificate al ricovero ospedaliero, quelle del famigerato “Articolo 26” per intenderci, sarebbero oppure no state conteggiate nel calcolo del periodo di comporto.
Quando si è instaurata la DAD, che già di per sé presenta diverse criticità, nessuno si è preoccupato degli studenti con disabilità. L’unico segno di sciatta attenzione è stata una letterina della ministra Azzolina in cui, in sostanza, diceva “fate un po’ quel che potete, se potete”. Nessuna attenzione all’accessibilità degli strumenti usati per la didattica a distanza, Nessun riguardo al contesto familiare di riferimento. I ragazzi sono semplicemente stati smollati in capo alle famiglie, sia che fossero in grado di supportarli nella didattica, sia che non avessero idea di come fare. E ognuno per sé e Dio per tutti. Ed evitiamo di parlare della fantastica soluzione tirata fuori dal cilindro per permettere agli “studenti fragili” di frequentare in presenza… Perché, altrimenti, nulla potrei dire rimanendo nell’alveo della civiltà.
Se dovessi poi parlare dell’assistenza fornita ai disabili positivi al COVID-19 o ai loro caregiver, beh, l’espressione “abbandono istituzionale” non sarebbe sufficiente a descrivere i drammi di cui ho sentito parlare in questi mesi, in cui praticamente nulla è stato fatto per trasformare ciò che all’inizio era comprensibilmente un’emergenza, in qualcosa di grave ‘sì, ma comunque gestito e gestibile.
E adesso, nell’ultimo atto di questa farsesca galleria della sciatteria, dell’approssimazione, del pressappochismo, emerge che, ancora e di nuovo, le persone con disabilità, in barba alla pomposa formalità di raccomandazioni ministeriali e linee guida, devono annaspare, faticare, ingegnarsi, informarsi, lottare.
Arrivati a questo punto, a me, come cittadino, non interessano più le spiegazioni e non voglio più nemmeno le scuse. Voglio che questo problema sia risolto e che sia risolto ora: non domani, non fra una settimana, non fra due. Esigo che sia risolto perché questo problema non avrebbe nemmeno dovuto presentarsi. per una volta, una sola, maledetta, dannata volta, la persona con disabilità avrebbe dovuto potersi collegare al suo maledetto portale di riferimento, inserire il suo banale codice fiscale e vedere apparire una pagina che testimoniasse che, per una volta, una sola maledetta volta, le cose erano andate bene o, meglio, come sempre dovrebbero andare.
E invece no. Anche questa volta, una volta di più, occorrerà chiedere, scrivere, sollecitare.
Soltanto una cosa ho da dire: cialtroni. Quale che siano le ragioni burocratiche, tecniche, politiche o astrologiche per quest’ennesima offesa ai diritti delle persone più fragili di questa società, vi siete condotti da cialtroni. E questo è quanto.
Cari signori, il primo aprile è passato da mo’. E sto pesce ormai puzza, puzza assai, puzza troppo.
PS: prima che qualcuno mi venga a fare la morale, questo post è l’espressione delle mie opinioni personali di Massimo Vettoretti, privato cittadino, persona con disabilità, non del Presidente dell’UICI di Treviso.
Per una mia socia, ho passato allo scanner diversi testi sul counseling e sul coaching, mentale e no. È roba per un master post lauream.
Non ho studiato i manuali in questione, perché la materia m’interessa troppo poco per farla diventare parte stabile della mia cultura, ma non abbastanza poco per non darci una sbirciatina. Non conto le volte in cui nei testi appare il termine performance. La metafora dominante, soprattutto per quanto riguarda il coaching, è quella dello sport. Ogni aspetto della vita, dal lavoro alle relazioni, è riformulato avendo come chiave interpretativa quella dell’incontro sportivo agonistico. Competizione ed efficacia sono i termini chiave, i metri su cui si misura tutto. E il coach è lo spacciatore di sostanze dopanti per la mente che aiuta a rendere non solo sopportabile tutto questo, ma addirittura avvincente.
Il coach è colui che ti allena ad essere efficiente ed efficace. Il coach ti sprona, ti spinge, ti segue e ti pungola. Il coach è quello che ti mette davanti agli occhi chi ti sta davanti per incoraggiarti a correre più forte e ti fa vedere i progressi di chi ti segue per dirti che, quale che sia la tua posizione, quali che siano i tuoi risultati, nulla può esser dato per acquisito, stabile e consolidato. Il coach, quand’anche non ci fossero avversari, ti spinge a gareggiare contro te stesso… Così, per non perdere le… Buone abitudini.
E io inorridisco.
Probabilmente, la mia è una visione viziata dalla consapevolezza che, in una vita trasformata in gara e in una società strutturata come e peggio di una competizione per iron maden io avrei scarse speranze. E non solo per la disabilità che mi caratterizza e l’handicap che inevitabilmente ne deriva, ma anche perché sono per natura così pigro che riuscirei ad arrivare secondo in una gara di cui fossi l’unico concorrente. Insomma, la mia natura è adatta alla competizione quanto meno non si potrebbe e “agonismo” ha una troppo minacciosa assonanza con “agonia” perché io possa non guardare qualsiasi cosa che vi si apparenti con profondo sospetto. Ma c’è, nel mio istintivo orrore, qualcosa di più che non il semplice conflitto d’interesse esistenziale, per così dire.
Non riesco a liberarmi dalla potente sensazione che, in un mondo in cui, per non ritrovarsi inevitabilmente a far da zerbino a una suola in rampante ascesa al ruolo di punta del cappello, occorre rimanere sempre e costantemente in uno stato di allarme, ci sarebbe molto scarso posto per tutto ciò che, in ultima analisi, rende questo mondo un posto in cui valga la pena di starci e di voler rimanere. Se tutto si riduce a un homo homini lupus, a una competizione disperata e continua diretta o per procura, in cui alcuni sono impegnati a gareggiare e altri dedicano la loro vita a spacciare anabolizzanti mentali per aiutare i primi a primeggiare, allora… che rimane-
leggendo soprattutto uno di questi testi, mi ritrovo a incontrare concetti che sono cari a chiunque abbia studiato un po’- di letteratura e di filosofia. persino l’esistenzialismo di Sartre viene asservito volgarmente a questa competizione infinita: la tesi è, per dirla in soldoni, che, siccome potresti morire prima ancora d’aver finito di leggere quest’articolo (piccola pausa per consentire grattatina bassoventrale scaramantica) allora tanto vale rischiare: insomma, “memento audere semper”, “quia pulvis es et in pulverem reverteris, homo!” E, siccome tanto morire devi, tanto vale spingere forte, spingere tanto, spingere sempre. Ottima idea, se lo si fa in una 100 metri. Ma… In una maratona, rischia di diventare un’ottima ricetta per il suicidio. Individuale e sociale.
E, quando il coaching non basta o non è disponibile o non è accessibile, si parte con gli ansiolitici, con gli antidepressivi, che, sono, non a caso, tra i farmaci più venduti in quasi tutti i Paesi del Blocco Occidentale. A riprova che, o siamo tutti fragilissimi, oppure abbiamo costruito un ambiente di vita iperagonistico, super-stressante, che, se anche sarebbe sostenibile sul breve termine, diventa corrosivo, esistenzialmente corrosivo, sul lungo.
E tutto questo lo facciamo per una presunta “meritocrazia”: l’idea di fondo sarebbe quella per cui, mettendo uomini e idee in competizione, ne emergerebbe, per una sorta di “selezione naturale” ripulita, ammodernata ed espressa con parole ammissibili dal neopuritanesimo del politicamente corretto a tutti i costi, incluso quello del ridicolo, il migliore. E se fosse in un contesto relativamente semplice come quello di una savana, forse forse, potrebbe anche funzionare. Dopo tutto, là, le regole sono ben semplici: mangiare è bene, non mangiare è male ed essere mangiati è peggio e il successo si misura in base alla capacità di mettere al mondo una prole che, per caratteristiche di resistenza, per numero d’individui, o capacità di cura del branco, riesca ad arrivare alla maturità in una misura sufficiente per assicurare la sopravvivenza della specie. E già nella savana le cose sono molto più complicate di come le ho espresse qui. Nella società umana, ipercomplessa com’è, in cui i parametri di valutazione sono tanti e diversificati e nemmeno sempre coerenti, alla fine, questa strategia dell’iperagonismo, non garantisce che ad emergere o anche soltanto a resistere siano davvero i migliori, ma semplicemente i migliori a gareggiare.
Il coaching, per come lo sono riuscito a inquadrare io, è questo. È la separazione definitiva e totale dalla valutazione di merito. Il coach non necessariamente è interessato alla qualità della persona che allena, che sprona, che spinge, pungola e tenta di far primeggiare. Come un avvocato può difendere il pedofilo certamente reo così come la vittima innocente di un errore giudiziario tentando spassionatamente di fare -ottenere a entrambi la minor pena possibile o nessuna del tutto, allo stesso modo un coach può fare coaching indistintamente per Adolf Hitler o per il Mahatma Gandhi. È l’ultima, ennesima manifestazione della supremazia della tecnica che pretende di subordinare a sé etica, morale e scrupolo, un’altro passo lungo la strada verso una società in cui, l’unico parametro di valutazione è la capacità di raggiungere uno scopo dato…. Sulla cui bontà si rinuncia anche soltanto a esprimere dubbi.